La tesi di
fondo dell’educazione terapeutica è semplice e chiara: l'approccio alla
malattia cronica rappresenta per tutti gli operatori sanitari una sfida epocale
che obbliga a confrontarsi con vari sistemi di pensiero e di azione, oltre a
quello biomedico tradizionale, vale a dire la sfera educativa e psicosociale
per un nuovo approccio culturale ed organizzativo alle cure. L’obiettivo è di riallineare i
modelli esplicativi della malattia più diffusi e radicati tra la gente, vale a
dire la condizione infettiva acuta, con la nuova realtà della malattia cronica,
praticamente sconosciuta fino allo sviluppo della medicina scientifica.
Nell’arco
di pochi decenni, grazie alla scoperta e all’uso clinico dell’insulina negli
anni trenta del 900, il destino di schiere di malati, come i diabetici ad esordio
giovanile, è cambiato quasi “miracolosamente”: da una vita segnata da stenti e
non di rado dall’exitus in giovane età, ad una lunga sopravvivenza in buone
condizioni, seppur a prezzo di cure e controlli assidui e con il rischio di
complicazioni tardive. Il punto di partenza del modello di
educazione terapeutica di Assal è la differenza tra condizione acuta e
cronicità.
Infatti nella malattia acuta
·
segni
e sintomi sono evidenti e si manifestano in modo più o meno repentino;
·
la
crisi costituisce un momento critico, talvolta a rischio della vita, e si
conclude con la restitutio ad integrum
·
bisogna
formulare urgentemente una diagnosi rapida e dare inizio al trattamento
terapeutico
·
l’approccio
è di tipo riduzionista, si presta attenzione solo all’essenziale
·
il
processo diagnostico-terapeutico in acuto è il modello di riferimento della
formazione medica e influenza l’identità professionale
·
rappresenta
meno del 10% dell’insieme delle visite del medico.
Nella malattia cronica invece
- la
guarigione e/o la restitutio ad integrum di regola non è possibile
- mancano
sintomi evidenti e spesso il decorso resta silente per anni al di fuori
delle riacutizzazioni o delle crisi
- se sono
presenti dolori, questi tendono a persistere o a recidivare
- spesso non
vi è correlazione tra sintomi soggettivi e parametri biologici
- l’evoluzione
clinica resta incerta sul lungo periodo
- può dipendere
ed essere influenzata dallo stile di vita e dalle abitudini voluttuarie
Queste
differenze hanno importanti conseguenze sull’identità professionale dei medici,
sulle aspettative dei pazienti, sulle concezioni e sulle valutazioni di
entrambi circa la natura della malattia, la qualità dell’assistenza e gli
obiettivi delle cure. Oggi grazie a nuovi modelli di formazione degli operatori
e di educazione dei pazienti l’arsenale terapeutico si è arricchito di un nuovo
approccio che consente di migliorare il compenso metabolico, ridurre
l’incidenza delle complicanze acute e croniche più gravi del diabete. Tuttavia
per raggiungere questi risultati è necessario un coinvolgimento e un elevato
grado di interazione tra medico e assistito (ad esempio i contatti telefonici
sono frequenti) in un contesto organizzativo-gestionale di tipo quasi “militare”.
Secondo il
Prof. Assal il cambiamento necessario per seguire i malati cronici è cruciale e
comporta una nuova attenzione, da parte degli operatori sanitari, per la
persona, le sue idee, la famiglia e l'ambiente sociale. Ognuno di questi
livelli sistemici, oltre a quello biologico vero e proprio, può influenzare il
decorso della malattia cronica e deve essere preso in attenta considerazione.
Occorre un salto di qualità culturale per passare dal mondo biologico (i
processi metabolici implicati nella malattia diabetica) a quello psicosociale
(il malato nella sua interezza “ecologica”). Questo obiettivo comporta un riallineamento
culturale tra i modelli esplicativi della malattia della gente (la cosiddetta ilness degli
antropologi medici) rispetto agli schemi concettuali prevalenti a livello di formazione, "incorporati" nelle pratiche assistenziali e nelle organizzazioni sanitarie (il desease, ovvero la concezione biomedica della malattia).
In tutti i
paesi e nelle diverse realtà culturali i malati cronici hanno in comune il
senso di solitudine per la loro malattia.
I bisogni dei pazienti affetti da una patologia cronica sono ormai noti:
ü ricevere cure di qualità
ü avere la possibilità di manifestare
attese e timori
ü confidare che i curanti tengano conto
delle opinioni e delle credenze della gente
ü essere aiutati nel processo di
adattamento alla malattia
ü acquisire un saper fare per gestire la
malattia in modo da
ü conservare l’autonomia potendo nel
contempo collaborare con i curanti.
Di
conseguenza la relazione tra medico e assistito deve evolvere verso nuove forme
che contemplino
ü la condivisione del sapere e del
potere in un modello di rapporto in cui l'operatore accetti di essere
"guidato" dal paziente
ü il superamento del riferimento
teorico-pratico alle cure intensive che evoca un medico attivo e un paziente
passivo recettore delle prescrizioni
ü un accordo-compromesso tra schemi
concettuali biomedici e credenze-logiche dell'assistito
ü una nuova sensibilità per i problemi
psicosociale e per il mondo della vita dei malati.
Strategie e tecniche
di apprendimento, messe in atto nel corso del processo di educazione
terapeutica, sono ispirate a queste principi programmatici. Ad esempio è
richiesto al medico di adattarsi ai desideri del diabetico, anche se non si può
rinunciare all’obiettivo pedagogico per eccellenza, ovvero l’evoluzione delle
idee preconcette sulla malattia e il tentativo di integrare le nuove conoscenze
con le abitudini di vita.
Assal
sottolinea il fatto che le abilità pratiche acquisite dai pazienti sono il
prodotto di turbamenti personali che richiedono l’elaborazione di nuovi
significati della propria esperienza di malattia. A livello personale ogni
malato è uno scienziato che sperimenta la validità dei consigli e delle
prescrizioni del medico, ad esempio sospendendo il farmaco per verificarne
l'efficacia. Così in certi casi la non-compliance è un processo quasi
scientifico di validazione delle cure. La reazione del medico a questi
esperimenti deve prendere in considerazione un franco confronto tra credenze
del paziente e sapere medico ufficiale.
Per
facilitare l'apprendimento è necessaria empatia, un'atmosfera positiva e,
talvolta, anche un pizzico di spirito umoristico che non guasta. E’ dimostrato
che l'educazione terapeutica riduce le complicanze acute e croniche, le
ospedalizzazioni, i costi diretti e indiretti e migliora la qualità di vita
della gente. Per raggiungere questi obiettivi si richiede una formazione
terapeutica sistematica che superi la frammentarietà di una gestione orientata
ad affrontare solo gli aspetti organici ed episodici della malattia.
Purtroppo
però nell’attuale assetto dei servizi sanitari non sempre i medici che
interagiscono con il diabetico sono in grado di comunicare efficacemente tra
loro. E’ quindi necessario che anche l’organizzazione dell’assistenza evolva
verso modelli che mettano al centro processi di integrazione e di continuità
assistenziale tra i vari attori che si alternano alla cura dei malati cronici
in una dimensione sistemica a rete.
L’approccio
biomedico tradizionale trascura una dimensione molto importante dell’esperienza
di malattia: le idee, le credenze, le attese e i pregiudizi del malato che deve
essere aiutato ad esprimere le sue preoccupazioni nascoste. E’ quindi prioritaria
una formazione continua che abitui gli operatori sanitari a considerare non
solo l’equilibrio metabolico ma anche quello psicosociale e a prestare
attenzione alle rappresentazioni mentali del malato, vale a dire i modelli esplicativi
ed interpretativi della sua condizione di malato.
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