Dalla seconda ondata pandemica in poi si susseguono le dichiarazioni programmatiche e i progetti per potenziare l'assistenza primaria dopo decenni di scarsa attenzione che in alcune regioni, come la Lombardia, ha sconfinato nello smantellamento dell'assistenza territoriale. In proposito a gennaio sono sati licenziati i progetti da finanziare con i fondi del Recovery found, che prevedono tre significativi capitoli di spesa per la medicina territoriale:
- Capillare diffusione di strutture assistenziali di prossimità con l'obiettivo di erogare nello stesso spazio fisico prestazioni sanitarie e socio-sanitarie per potenziare l’integrazione dei servizi territoriali di comunità, la promozione della salute e la presa in carico globale dei bisogni: entro il 2026 verrà realizzata 1 Casa della Comunità ogni 24.500 abitanti per un totale di 2.564 strutture con l’obiettivo di prendere in carico 13 milioni circa di pazienti cronici mono o poli-patologici.
- Promozione dell’assistenza domiciliare su tutto il territorio nazionale attraverso la riorganizzazione dei servizi e lo sviluppo di un modello digitale di ADI. L’obiettivo è quello di definire indicazioni nazionali per l’erogazione di prestazioni in telemedicina entro il 2022, per un nuovo modello di ADI entro il 2026, articolato in 575 centrali di coordinamento composte da 51.750 tra medici e altri professionisti con 282.425 pazienti dotati di kit technical package.
- Implementazione di presidi sanitari a degenza breve (Ospedali di comunità) interconnesse con gli altri servizi sanitari e sociali territoriali, che svolgeranno una funzione “intermedia” tra il domicilio e il ricovero ospedaliero al fine di sgravare l’ospedale da prestazioni di bassa complessità. L'obiettivo è la realizzazione entro il 2026 di strutture per ricoveri brevi (15-20 giorni) per uno standard 1 ospedale di comunità ogni 80.000 abitanti, per un numero complessivo di 753 ospedali.
La diffusione capillare di strutture come le case, gli ospedali di comunità e il rilancio dell'ADI configura quella riforma mai attuata nell'ultimo decennio, partendo dal basso e dalle strutture fisiche per promuovere l'integrazione delle pratiche e degli attori professionali; sarebbe una riforme più efficace e pragmatica di un'ennesima legge nazionale astratta, calata top down in modo prescrittivo, con tutte le incognite per la sua applicazione, come dimostra la vicenda della Riforma Balduzzi. Naturalmente le case della comunità saranno la soluzione più adatta per le aree urbane ad elevata densità o perlomeno nei comuni superiori a 20 mila abitanti dove potranno svolgere i diversi compiti loro affidati. Nei comuni con popolazione inferiore, dove le case della comunità non sono proponibili per questioni logistiche, le Unità Complesse Multiprofessionali e le AFT continueranno ad essere un punto di riferimento per gli assistiti ivi residenti mentre le medicine di gruppo o i medici single potranno coprire i bisogni assistenziali dei comuni con meno di 10 mila abitanti, in particolare nelle zone disagiate o con popolazione dispersa sul territorio.
Anche la riforma della legge 23 in Lombardia dovrebbe assecondare questo percorso riformatore dal basso, tracciato dal Recovery Found; lo stanziamento di ingenti fondi per ricostruire la rete territoriale abbandonata da tempo in nome del quasi mercato, è un'opportunità da non perdere per imprimere una svolta radicale alle policy regionali lombarde, a condizione che la revisione della L.R. 23 riconduca alle ATS il ruolo di regia dell'operazione; di fatto i miliardi in arrivo dalla UE trascineranno con se anche la gestione della presa in carico, la ricostruzione della case rete distrettuale, dei POT e della medicina territoriale nel suo complesso, ora delegata impropriamente alle ASST.
Leggendo la lista di proposte "rivoluzionarie" del PRR si prova una sorta di deja vù perchè progetti analoghi sono stati già messi in campo negli ultimi tre lustri. Dal lontano 2007 si sono stratificati un numero notevole di atti legislativi o accordi stato-regioni che in teoria dovevano potenziare la medicina del territorio investendo importanti risorse nella rete dei servizi socio-sanitari. Ecco l'elenco dei provvedimenti licenziati negli ultimi 14 anni per rilanciare il territorio:
- 2007 finanziaria e Decreto ministeriale attuativo: istituzione delle case della salute su tutto il territorio nazionale
- 2012 riforma Balduzzi, recepita dal patto per la salute 2014-2016: nascita e diffusione delle forme associative delle cure primarie, ovvero di AFT e UCCP
- 2014-2016 patto per la salute e DM 70 del 2015: creazione degli ospedali di comunità
- per giunta l'ACN, che doveva recepire e mettere in pratica questi atti, è vacante da oltre un decennio in quanto l'ultimo rinnovo risale al lontano 2009.
Quali sono stati i risultati pratici della macchina legislativa e amministrativa che con la diffusione delle case della salute doveva rivoluzionare la medicina del territoriale? Riguardo alle strutture sanitarie extra-ospedaliere è stato divulgato il rapporto del Senato sulla diffusione della Case della Salute e degli Ospedali di comunità ( https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93087 ) che tratteggia un quadro variegato e ben poco entusiasmante: a distanza di quasi 15 dal varo Decreto Ministeriale del 2007 pochi SSR hanno ottemperato alle indicazioni programmatiche condivise tra Stato e Regioni.
Nella tabella del rapporto spicca ad esempio il caso macroscopico delle 7 regioni con zero case della Salute attive, vale a dire Lombardia, Valle d’Aosta, Bolzano, Trentino, Friuli, Puglia e Campania. Al polo opposto troviamo invece Piemonte, Veneto, Toscana, Sicilia ed Emilia Romagna con oltre 50 strutture n funzione. Quest’ultima regione è saldamente in testa alla classifica con 124 Case della salute in attività rispetto ad un totale nazionale di 493. Come sarebbe cambiato lo scenario delle cure territoriali se tutte le regioni avessero seguito l’esempio virtuoso dell’Emilia Romagna, che non ha a caso ha risposto in modo più appropriato, ad esempio per numero di USCA attivate, all’emergenza pandemica? Come sarebbe stata gestita la pandemia e con quali esiti se in Lombardia, ad esempio, fossero attive circa 250 case della salute, per non parlare delle oltre 400 previste degli standard del Recovery Plan?
Questi dati accreditano l’ipotesi che la causa prima delle criticità territoriali risiedano più che altro nello scarso interesse e nella sfiducia dei decisori regionali verso le cure primarie, che raggiunge l’acme in alcune realtà dove per una presunta inaffidabilità sono state smantellate le poche strutture distrettuali esistenti all'inizio del secolo. Valga ancora una volta l’esempio emblematico della Lombardia dove non solo la Legge Balduzzi è stata ignorata per un decennio ma la politica regionale è andata nella direzione opposta, con il tentativo di spostare la cronicità dal territorio all'ospedale.
Insomma questa produzione incessante di atti riformatori è rimasta sulla carta per un decennio: bastava applicarli per riformare nei fatti la MG e rilanciare il territorio. Ora con i miliardi del recovery plan potrebbero essere finalmente realizzate nel giro di qualche anno quelle strutture rimaste nei cassetti degli assessorati, senza la necessità di una riforma radicale delle cure primarie che da più parti viene invocata come panacea dei problemi del territorio.
Sarebbe l'ennesima riforma elaborata a tavolino, applicata in modo burocratico-prescrittivo e top down. Davvero in questa fase turbolenta una quinta riforma sanitaria, con il passaggio alla dipendenza dei medici del territorio, sarebbe la panacea di tutti i mali che affliggono la MG? Essa richiederebbe un complesso lavoro di elaborazione teorica, negoziazione tra portatori di interessi e passaggi parlamentari lunghi ed estenuanti, con il rischio che servano anni per la sua approvazione ed altrettanti per l'applicazione pratica. Molto meglio costruire pragmaticamente dal basso quella rete socio-sanitaria di strutture distrettuali che mancano da vent'ani e fanno la differenza rispetto ad un'ingegneria legislativa astratta e decontestualizzata.
Una accurata analisi dei tentativi infruttuosi di potenziare le cure territoriali prescindendo dallo sviluppo di adeguati professionisti con adeguati standard di capacità, flessibilità, integrazione, comunicazione, discrezionalità. Imporre percorsi burocratizzati, "cottimistici", protocollari favorisce un appiattimento sull'apparenza contabile più che sui risultati clinici
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