Qual è il metodo clinico più adatto al contesto professionale della medicina del territorio?
Una proposta pratica può venire dal cosiddetto “professionista riflessivo”, modello elaborato dal cognitivista americano Donald Schön una trentina di anni fa, ma sempre attuale e valido. Secondo Schön ogni professionista vive quotidianamente il dilemma tra rigore scientifico e pertinenza/
appropriatezza pratica delle proprie decisioni. Il rigore scientifico è correlato alla cosiddetta razionalità tecnica: secondo questa impostazione il professionista deve fare riferimento ad un corpus di solide conoscenze scientifiche, frutto della ricerca di base ed applicata, che si traducono in strumenti, tecniche e procedure standardizzate necessari e sufficienti per definire e risolvere di routine i problemi di diagnosi, terapia e gestione.
È facile intravedere in filigrana nel concetto “razionalità tecnica” tutti gli aiuti alle decisioni oggi disponibili in gran copia, dai protocolli alle check-list, dalle linee guida ai percorsi, dai criteri alle codifiche cliniche, dalle Note Aifa a quelle dei LEA etc.. Si tratta di una sedimentazione di sapere teorico-pratico, a priori ed in una certa misura “astratto”, che attende solo di essere opportunamente implementato e trasferito “tecnicamente” nella concreta realtà assistenziale, ospedaliera e territoriale.
Tutto bene quindi? Non proprio, sostiene Schön, poiché per portare a termine questa operazione il professionista deve sovente dirimere il dilemma tra rigore e pertinenza, che emerge allorchè incappa in “problemi disordinati e indeterminati che resistono a qualsiasi soluzione di tipo tecnico”. A dispetto della razionalità tecnica il professionista deve fare quotidianamente i conti con casi complessi, unici, instabili, fonte di incertezza decisionale e di conflittualità tra valori etici.
Insomma la razionalità tecnica – per sua natura a-contestuale, schematica e a priori - deve venire a patti con un sapere pratico situato, calato nell’azione e “a posteriori”, che richiede al medico una sorta di “abilità artistica” fatta di “competenze attraverso le quali i professionisti di fatto interagiscono con le zone indeterminate della pratica”. Questa impostazione ha importanti risvolti formativi e dovrebbe ispirare programmi in cui “uno degli obiettivi è aiutare gli studenti ad imparare ad agire in maniera competente in situazioni cliniche in cui non vi sono risposte giuste predefinite o procedure standardizzate”.
La proposta culturale di Schön fa riferimento ai concetti di riflessione nel corso dell’azione e di conversazione riflessiva, che è utile per approcciare situazioni problematiche caratterizzate da varietà, complessità, instabilità, unicità, incertezza e conflitti di valore.
Un esempio paradigmatico del dilemma tra rigore scientifico e pertinenza pratica è quello della gestione degli assistiti, specie anziani, affetti da pluripatologie croniche: sebbene esistano per ogni singola condizione clinica Linee Guida e percorsi specifici, non è agevole prendere decisioni sul campo di fronte alla combinazione di più patologie in un singolo individuo, la cui condizione è quindi unica e per certi versi irripetibile, per tratti personali ed evoluzione clinica. Non a caso l'impostazione generale dei PDTA per questi pazienti si è dimostrata inadatta e sono stati sostituiti dai PAI, proprio per una personalizzazione della gestione e delle cure che tenga conto di varietà e complessità delle presentazioni.
L'atteggiamento riflessivo e l'auto-critico, generalmente retrospettivo (stiamo facendo la cosa giusta nel modo giusto?) è il metodo più adatto ogni volta che si incappa nel gap tra le prescrizioni della razionalità tecnica e le decisioni empiriche nella pratica clinica, condizionate dalle caratteristiche di unicità, complessità, instabilità ed incertezza dei casi concreti.
La proposta riflessiva di Donald Schön parte dalla teoria dell'indagine di Dewey che prevede 5 tappe:
- L’osservatore raccoglie dati o fatti pertinenti circa la situazione problematica che ha destato perplessità e dubbi
- In questo fase si passa alla definizione del “problema” che ha destato perplessità oppure incertezza, in modo tale da poterlo specificare come problema ben definito (problem setting)
- In un tempo successivo nascono le “suggestioni”, cioè ipotesi o abbozzi di idee per risolvere il problema.
- Il ragionamento mette le ipotesi in rapporto con teorie e sistemi concettuali più generali, coordina le osservazioni e le ipotesi, suggerisce nuove osservazioni per una verifica "sperimentale" della congetture
- La sperimentazione mette le ipotesi e le idee alla prova nel contesto della situazione, in un rapporto di interazione tra il decisore e l’ambiente.
Questi cinque momenti sono sempre provvisori, possono — e devono — essere rivisti molte volte durante il corso dell’indagine. La ricerca implica dunque un avanti-indietro continuo e per Dewey essa non arriva mai a un risultato definitivo. L'attitudine riflessiva del professionista punteggia tutte le fasi dell'indagine in termini di meta-cognizione percettiva e valutativa, di analisi autocritica del pensiero, di auto-osservazione sul giudizio e sulle decisioni, in quella che Schön definisce "conversazione riflessiva con la situazione problematica".
Un esempio concreto di esercizio riflessivo è rappresentato dai sintomi di difficile inquadramento diagnostico, che afferiscono alla categoria dei disturbi sotto-soglia ed inclassificabili (la proverbiale zona grigia e “paludosa” dove allignano incertezza e indeterminatezza). Le statistiche dimostrano che una percentuale del 20-30% di pazienti presentano sintomi che rientrano nella categoria dei cosiddetti MUS, ovvero Medically Unexplaned Syptoms che non superano la soglia diagnostica della nosografia, anche dopo ripetuti accertamenti diagnostici o consulenze specialistiche, una grande sfida pratica e metodologica per i medici e per la razionalità tecnica.
Si pensi ad uno altro problema pratico oggetto di interventi formativi di vario tipo: la “patologica” variabilità degli esiti tra diversi soggetti od agenti organizzativi. Per definizione il medico, specie quello pratico del territorio, è portato a privilegiare l’approccio ad personam rispetto alla dimensione di popolazione, più affine ai contesti organizzativi. È una questione di limiti cognitivi individuali, in quanto la pratica corrente, centrata sui singoli casi, non consente di sviluppare uno sguardo d’insieme sulla popolazione assistita, laddove si annidano proprio le cause di eccessiva variabilità negli indicatori di processo e di esito.
L’audit clinico ad esempio è adatto a fare emergere, tramite il confronto dei dati o benchmarking, la discrepanza tra performance attese, in base agli standard dedotti da trial randomizzati, Linee Guida e Percorsi, e performance reali osservate sul campo in fase diagnostica o terapeutica. Per risolvere il problema la ricetta sembrerebbe logica: la variabilità è eccessiva perchè le linee guida non vengono applicate con la necessaria standardizzazione e il dovuto rigore “tecno-scientifico”. Al contrario, la soluzione può scaturire dalla personalizzazione dei percorsi, ad esempio con interventi educativi mirati e tarati sulla particolarità di ogni paziente, specie nella gestione territoriale della cronicità e in presenza di incertezza, complessità, varietà e unicità dei singoli casi.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
- AAVV (a cura di A. Pagnini) Filosofia della medicina, Carocci, Roma, 2010
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- Schoen D, Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993
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- Striano M, Melacarne C, Oliverio S. La riflessività in educazione, Morcelliana, Brescia, 2018
- Thagard P, La spiegazione scientifica della malattia, Mc Graw-Hill, Bologna, 2001
- Vineis P, Nel crepuscolo delle probabilità, Einaudi, Torino, 1999
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