Leggendo l'intervento del dott. Polillo sul QS, critico verso 30 anni di immobilismo in MG, ci si potrebbe fare un'idea distorta del lavoro sul territorio. Il profilo e l'immagine pubblica del MMG oscilla tra le due code estreme della curva gaussiana: da un lato prevale quella del "mutualista" generico, passivo certificatore deprofessionalizzato, passacarte burocratico e docile impiegato esecutivo, ligio ai desiderata dei "clienti" o agli ordini dei superiori, incapace di farsi carico dei problemi degli assistiti, smistati agli specialisti. Al polo opposto dello spettro troviamo l'immagine idealizzata di un superman clinico in grado di intervenire indifferentemente, con pari efficacia e qualità professionale, in situazioni acute e croniche, tanto da insidiare gli specialisti.
Negli ultimi 30 anni la medicina del territorio ha dovuto far fronte ad una trasformazione tanto silenziosa quanto profonda con un tasso di cambiamento per certi versi epocale, pur senza adeguati strumenti e risorse rispetto all'impegno richiesto e nell'immobilismo per il disinteresse della controparte, se non peggio. Insomma in tre decenni è cambiato il mondo e la medicina generale è riuscita miracolosamente ad adattarsi, pur con grande fatica, esiti organizzativi parziali ed incerti, nonostante l'incuria e i ritardi della gestione nazionale, come ha sottolineato la collega Mancin replicando a Polillo. Va da se che formazione, abilità e sapere pratico si devono adattare alla prevalenza ed incidenza delle patologie nel setting socio-demografico di riferimento, vale a dire la popolazione generale, ben diversa da quella selezionata afferente ai reparti ospedalieri per acuti. Vediamo in modo sommario in cosa consiste il lavoro sul territorio, sul piano qualitativo e quantitativo, riconducibile alle tre categorie dell'epidemiologia.
La terra di nessuno. Ma c’è di più: nell’epoca della medicina mutualistica era praticamente sconosciuta una fetta non meno rilevante di condizioni croniche da fronteggiare sul territorio, vale a dire la zona grigia ed incerta dei MUS che si annidano in ogni organo ed apparato a partire dalla galassia dei distubi funzionali. A dire il vero anche oggi questo acronimo è praticamente ignorato dalla formazione universitaria e specialistica, tranne rari casi tra i quali spicca per completezza e approfondimento il libro di Renato Rossi. Eppure riguarda quasi il 20% delle consultazioni ambulatoriali, di cui costituisce la parte sommersa e non percepita dagli stessi medici che, a loro insaputa, se ne devono occupare. Lascio alla curiosità del lettore la scoperta del significato del misterioso acronimo.
Ebbene secondo Polillo, oltre a farsi carico di questa sfaccettata e poliedrica mole di condizioni acute, croniche e ricorrenti, da gestire con professionalità e competenza nonostante una burocrazia opprimente e con scarse risorse, il MMG "medio" dovrebbe affrontare emergenze mediche di vario genere, in studio o a domicilio assumendosi notevoli rischi. Polillo ripropone quell'identita' professionale centrata sulla risoluzione di eventi acuti che l'emergere della cronicità ha messo in crisi giusto trent'anni or sono; si deve al ginevrino prof. Assal la lucida tematizzazione delle differenze e delle difficoltà, prima di tutto culturali ma anche relazionali ed identitarie, che i medici devono superare per aiutare con l'educazione terapeutica il malato cronico ad autogestire in modo efficace la sua nuova condizione (empowerment).
In sostanza lo studio del MMG si dovrebbe trasformare in una piccola corsia ospedaliera e in un mini PS, mentre in quello vero i codici minori vengono sottoposti ad accertamenti e visite specialistiche nei 4/5 dei casi, mentre la medicina difensiva libero-professionale imperversa riversandosi sull’ultimo anello della catena prescrittiva, mentre anche in ospedale prevale la delega alle iper-specializzazioni, mentre da due anni il MMG è sottoposto ad una reiterata squalifica professionale mediatica, mentre tensioni con pazienti pretenziosi ed esigenti sfociano spesso in minacce o vere aggressioni e mentre le zone carenti restano tali per anni, a causa di una profonda crisi vocazionale. Quello che sfugge a Polillo è la differenza tra le pratiche, l'epidemiologia e il contesto organizzativo ospedaliero e il setting socio-sanitario di cui fa parte la medicina territoriale, con la mission propritaria di gestire la cronicità, in modo integrato, personalizzato e con la massima continuità, grazie alla sua collocazione spazio-temporale e alla specificità bio-psico-sociale e culturale.
Per giunta il contesto organizzativo e normativo territoriale non si è adeguato a questo cambiamento clinico-epidemiologico ed antropologico epocale, essendo fermo da oltre dieci anni per il disinteresse della controparte che, dopo aver approvato una riforma come la Balduzzi, l’ha relegata in un cassetto, per non parlare della latitanza nel rinnovo degli ACN che dura ormali da 15 anni. Difficile imputare al presunto corporativismo della categoria ritardi di questa portata che hanno bloccato l’evoluzione organizzativa e professionale: la logica contro-fattuale ci viene in aiuto suggerendo di immaginare come sarebbe oggi la medicina del territorio se un progetto come il PNRR fosse stato realizzato contestualmente all’applicazione della Balduzzi. Invece è passato un decennio per il disinteresse e l’incuria della parte pubblica che in certi casi si è convertito in tentativi di smantellamento della medicina territoriale, camuffato dalla piaggeria retorica sul ruolo centrale.
Come ha osservato il sociologo sanitario Bertin secondo alcuni la formula per migliorare l'assistenza primaria resta sempre la “colonizzazione del territorio con la stessa cultura di governo utilizzata nella gestione dei sistemi ospedalieri”. Al contrario il presupposto per “integrare un sapere specialistico con uno di tipo olistico che considera le persone nella loro globalità” sta nella "legittimazione reciproca tra professionisti dell’area specialistica e della rete delle cure primarie", senza la quale non verrà riconosciuta la specificità della medicina generale.
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