Com’è tosta l’influenza quest’anno! Con questa espressione di sorpresa si aprono molte consultazioni negli ambulatori dei medici di MG nei due mesi invernali più "caldi" per via dell’epidemia influenzale. Lo stupore dell’influenzato si ripete puntualmente ogni anno dopo aver fatto esperienza dei sintomi generali che porta con se da sempre il virus, altrettanto puntualmente confuso con la pletora di altri virus responsabili della maggior parte delle infezioni delle prime vie aeree, complice i media che non distinguono gli sporadici focolai di adenovirus, rinovirus, virus respiratoci sinciziali etc.. dalla vera epidemia influenzale, generando una gran confusione quella si "pandemica".
Durante i mesi autunnali e invernali infatti circolano moltissimi virus, responsabili di sintomi come mal di gola, raffreddore con naso chiuso e gocciolamento, tosse secca etc., meno impegnativi del virus targato HN, di breve durata e quasi mai accompagnati da febbre elevata o persistente oltre 2-3 giorni. Nella sua forma tipica invece l’influenza presenta ben altra sintomatologia, soprattutto per l’interessamento sistemico.
Anche quest'anno puntualmente con la stagione autunnale è arrivata la prima ondata di virus respiratori para-influenzali, che hanno trovato terreno fertile negli asili e nelle scuole elementari per poi diffondersi in piccole epidemie familiari. Le virosi respiratorie sporadiche non vengono in genere intercettate dai sistemi di sorveglianza epidemiologica nazionali, come la rete influnet, rivolti alle vere influenze che solitamente iniziano a segnalare i primi casi dalla metà di dicembre, per poi seguire settimanalmente, passo passo, la diffusione dell'epidemia durante le abituali 6 settimane di incremento, più o meno rapido, picco e declino.
Ma da qualche anno a questa parte c'è un'inedito sistema di sorveglianza dell'epidemia influenzale che ha dimostrato, dati alla mano, di avere un'efficacia e un'attendibilità praticamente sovrapponibile a quelli tradizionali, ma praticamente in tempo reale: mi riferisco a Gooogle Trends, il servizio statistico dell'omonimo motore di ricerca che è in grado di fornire i dati dettagliati delle ricerche effettuate dagli utenti in base alle parole chiave immesse nel motore stesso (https://www.google.it/trends/ ) in tutto il globo, in ogni continente o nazione, anno per anno, mese per mese e addirittura ad ogni ora del giorno.
Il servizio prevede anche la possibilità di attivare un avviso di allerta in caso di aumento significativo delle ricerche su parole chiave, come appunto "influenza". Ebbene nelle settimane di passaggio da settembre da ottobre è stato rilevato un incremento del 57% e del 108% di ricerche con il termine "influenza", con un picco l'8 ottobre, che testimonia, appunto, la prima pseudo-epidemia della stagione autunnale. Così la ricerca su internet di uno specifico termine nosografico, usato impropriamente dai naviganti "pseudo-influenzati", permette di ricostruire l'andamento epidemiologico delle virosi respiratorie stagionali, rilevazione epidemiologica improponibile se non impossibile con sistemi di segnalazione più accurati ma più impegnativi, come quelli tradizionali.
Notizie, commenti e riflessioni sulla medicina del territorio. "Non c'è nulla di più pratico di una buona teoria" (K. Lewin)
mercoledì 12 ottobre 2016
domenica 9 ottobre 2016
Anche la guaritrice apprezza il reverendo scozzese!
Un tempo nei paesi di campagna la gente si rivolgeva per piccoli
acciacchi fisici, in genere di natura ortopedica, alla guaritrce del
posto dotata di abilità manuali per rimettere a posto "i nervi", ovvero tendini
"accavallati" o articolazioni lussate o distorte, restituendo il benessere al "paziente". Molte sono ormai
invecchiate e non praticano più, ma alcune sono rimaste in campo ed
hanno anche saputo adeguare la loro metodologia all'evoluzione delle
prassi mediche. Ecco ad esempio gli esiti di due consultazioni
di una guaritrice popolare, ben nota nel paese della bassa lombarda, alle prese con alcuni
tipici problemi della MG, come riferiti da un collega in una lista di
discussione medica.
Nei due episodi sopra citati invece mi pare che la guaritrice nostrana faccia un salto di qualità metodologico, in direzione di un approccio più sofisticato: prende in considerazione un ventaglio di ipotesi diagnostiche per arrivare alla conferma di una di queste, dopo aver raccolto alcune informazioni di base per una valutazione probabilistica delle ipotesi stesse. Gli esami che suggerisce segnalano un'ulteriore evoluzione anche se la prescrizione è rozza e applica, in modo meccanico, lo schema se...allora (lombalgia=RMN della colonna, cefalea=TAC encefalo). Ma non c'e' da disperare, prima o poi anche l'approccio bayesiano fara' breccia nel suo (ancora) sommario processo diagnostico.
Anzi, a ben vedere la guaritrice nostrana ha già adottato uno sguardo proto-bayesiano, perlomeno nel caso di probabile dispepsia funzionale. Grazie all'esperienza ha capito che il suo target ideale, i probabili responder alle sue tacniche curative, sono quei pazienti che hanno gia' provato tutti i rimedi dei medici ufficiali. Sono i cosiddetti MUS (Medically Unenxplaned Symptom), ovvero gli sfortunati affetti da disturbi inspiegabili con gli esami usuali e ancor più difficili da trattare con l'armamentario farmacologico a disposizione del MMG, ma in genere sensibili all'effetto placebo delle sua "terapia".
Per cui di fronte ad un problema come la dispepsia si guarda bene dall'intervenire subito ed imposta un iter diagnostico differenziale tra le due ipotesi più probabili, ovvero dispepsia di origine epato-biliare piuttosto che gastroduedenale. Solo dopo aver escluso la natura organica del disturbo, da curare in modo specifico da parte del medico, avrà una sufficiente probabilità a priori di aver a che fare con un caso di MUS e potrà quindi sfoderare le sue armi terapeutiche con discreto successo, grazie al suo primo alleato ovvero l'effetto placebo.
E' proprio vero quello che annotava lo stagirita: "tutti gli uomini per loro natura tendono alla conoscenza". A quanto pare accede pure alle guaritrici nostrane e questa è una buona notizia! C'e' speranza se cio' accade anche nella bassa padana, per parafrasare un'altro motto celebre della pedagogia lombarda!
- "Doveva venire da me prima, ora faccio ciò che posso, intanto vada dal suo medico e si faccia fare una Risonanza e prenda : Voltaren e Soldesam forte 2 volte al giorno. Lasci un' offerta libera e vedrà che la guarirò! Ah dimenticavo: protegga anche lo stomaco, si faccia ordinare una....pompa, non ricordo come si chiama..!"
- "Ha mal di testa? Faccia subito, ma subito una TAC e si faccia mettere il bollino verde, il suo medico li ha...". "Non digerisce? Faccia un eco e meglio ancora una gastroscopia, non si sa mai!".
Nei due episodi sopra citati invece mi pare che la guaritrice nostrana faccia un salto di qualità metodologico, in direzione di un approccio più sofisticato: prende in considerazione un ventaglio di ipotesi diagnostiche per arrivare alla conferma di una di queste, dopo aver raccolto alcune informazioni di base per una valutazione probabilistica delle ipotesi stesse. Gli esami che suggerisce segnalano un'ulteriore evoluzione anche se la prescrizione è rozza e applica, in modo meccanico, lo schema se...allora (lombalgia=RMN della colonna, cefalea=TAC encefalo). Ma non c'e' da disperare, prima o poi anche l'approccio bayesiano fara' breccia nel suo (ancora) sommario processo diagnostico.
Anzi, a ben vedere la guaritrice nostrana ha già adottato uno sguardo proto-bayesiano, perlomeno nel caso di probabile dispepsia funzionale. Grazie all'esperienza ha capito che il suo target ideale, i probabili responder alle sue tacniche curative, sono quei pazienti che hanno gia' provato tutti i rimedi dei medici ufficiali. Sono i cosiddetti MUS (Medically Unenxplaned Symptom), ovvero gli sfortunati affetti da disturbi inspiegabili con gli esami usuali e ancor più difficili da trattare con l'armamentario farmacologico a disposizione del MMG, ma in genere sensibili all'effetto placebo delle sua "terapia".
Per cui di fronte ad un problema come la dispepsia si guarda bene dall'intervenire subito ed imposta un iter diagnostico differenziale tra le due ipotesi più probabili, ovvero dispepsia di origine epato-biliare piuttosto che gastroduedenale. Solo dopo aver escluso la natura organica del disturbo, da curare in modo specifico da parte del medico, avrà una sufficiente probabilità a priori di aver a che fare con un caso di MUS e potrà quindi sfoderare le sue armi terapeutiche con discreto successo, grazie al suo primo alleato ovvero l'effetto placebo.
E' proprio vero quello che annotava lo stagirita: "tutti gli uomini per loro natura tendono alla conoscenza". A quanto pare accede pure alle guaritrici nostrane e questa è una buona notizia! C'e' speranza se cio' accade anche nella bassa padana, per parafrasare un'altro motto celebre della pedagogia lombarda!
mercoledì 21 settembre 2016
Confronto tra CReG lombardi e Governo Clinico dell'ATS di Brescia
Attorno alle patologie croniche, da una quindicina di anni, si affollano progetti per affrontare quella sorta di pandemia che ormai interessa non solo le nazioni più ricche e sviluppate del pianeta. L’area delle cure primarie è investita da una varietà di proposte gestionali e modelli organizzativi, contrassegnati da altrettanti strani acronimi: CCR (Cronic Care Model), DM (Disease Management), CReG (Cronic Realted Group), GC (Governo Clinico) etc..
Gli ultimi due riguardano specificatamente la regione Lombardia, in cui si sono sviluppati nell’ultimo decennio: l’uno, il Governo Clinico, a livello provinciale dal 2005 (ASL ora ATS di Brescia: https://reteunire.wordpress.com/info/la-rete-unire-alla-prova-del-governo-clinico/ ) e l’altro invece a dimensione regionale dal 2010, seppur in un primo tempo in forma sperimentale solo in alcune ASL ( http://tinyurl.com/hxk95vp, http://tinyurl.com/gvlo5oz ).
Se si confrontano l'impianto "teorico", il metodo e gli esiti dei CReG con il razionale e i risultati dell'esperienza decennale di GC le differenze appaiono evidenti. In comune hanno il medesimo oggetto (la gestione delle patologie croniche) ma per il resto le differenze di impostazione, metodo ed obiettivi non mancano. Proviamo a confrontare schematicamente il profilo "diagnostico" differenziale dei due modelli.
⦁ Progetto bottom-up versus top-down e poco condiviso. E' stato osservato che nessuno degli ideatori dei CReG si è preoccupato di consultare i diretti interessati nel momento di progettare l'apparato organizzativo proposto alla Medicina Generale; la normativa è stata calata dall'alto, a prescindere dalle condizioni del contesto e dalle pratiche della medicina del territorio. Esattamente l'opposto del GC, nato dall'esperienza di gestione del diabete mellito, cresciuto elettivamente dal basso, supportato da una formazione continua in piccoli gruppi distrettuali, sottoposto ad aggiustamenti delle procedure sulla base dei risultati, con correzioni e revisioni dei PDTA, l'architrave clinica del progetto etc... Insomma da un lato una gestione concertata e condivisa dal basso, sebbene "alla buona", a fronte di un progetto astratto rispetto al contesto e calato dall'alto senza adeguata condivisione.
⦁ Gestione informale versus formale. L'informalità della gestione dei singoli casi e dell'applicazione dei PDTA nel setting della MG è la cifra dell'esperienza del CG, in continuità con il progetto di Disease managment; al contrario i CReG scontano una tendenza alla formalizzazione, un'impostazione contabile e logiche prevalentemente finanziarie, sul modello dei DRG nosocomiali per l'acuzie. Come ho cercato di dimostrare nel post precedente, i DRG per le loro caratteristiche non possono essere meccanicamente trasferiti al territorio e alla cronicità, ma devono per forza adattarsi alle caratteristiche del contesto, in cui prevale l'informalità della relazione fiduciaria e della presa in carico.
⦁ Procedure semplificate versus burocratizzazione. L'apparato burocratico-amministrativo previsto dai CReG è farraginoso e barocco - in stridente contrasto con la retorica della semplificazione delle procedure - specie se confrontato con la semplicità e linearità del GC, rispettoso delle pratiche e adattato al contesto operativo delle cure primarie; con il passare degli anni il GC si mimetizzato nell'attività routinaria, tanto da passare ormai inosservato, ed è diventato patrimonio comunitario ed identitario della MG bresciana (a parte il problema della registrazione degli esami, che resta il punto più critico della gestione informatica).
⦁ Per ultimo alcune considerazioni sul PAI, il compito più impegnativo dei GReG. La definizione a priori del fabbisogno diagnostico-terapeutico dei singoli assistiti risponde ad una logica previsionale, ancora di matrice amministrativa e contabile, a mo' di bilancio preventivo e consuntivo nel singolo caso, non correlato con gli esiti clinici nella popolazione. Nella realtà quotidiana del GC il PAI coincide con il PDTA nel suo complesso, che stabilisce i paletti piuttosto laschi delle buone pratiche da applicare caso per caso e al variare dell’evoluzione del quadro clinico. Il GC in sostanza realizza un adattamento, negoziato e situato, delle indicazioni generali del PDT, sulla base delle esigenze individuali e della variabilità dei casi, che è proprio del contesto delle cure primarie, a fronte della rigida definizione a priori dei PAI.
In conclusione il CG è il prodotto “storico” ed originale di un progetto aperto, situato e adattato al contesto della MG, perché cresciuto dal basso, in armonia con le pratiche clinico-assistenziali, informatiche, organizzative e sociorelazionali del territorio. Sarebbe un peccato disperdere il valore aggiunto di queste esperienza, riconducendola alle mere logiche finanziarie e contabili dei CReG.
Gli ultimi due riguardano specificatamente la regione Lombardia, in cui si sono sviluppati nell’ultimo decennio: l’uno, il Governo Clinico, a livello provinciale dal 2005 (ASL ora ATS di Brescia: https://reteunire.wordpress.com/info/la-rete-unire-alla-prova-del-governo-clinico/ ) e l’altro invece a dimensione regionale dal 2010, seppur in un primo tempo in forma sperimentale solo in alcune ASL ( http://tinyurl.com/hxk95vp, http://tinyurl.com/gvlo5oz ).
Se si confrontano l'impianto "teorico", il metodo e gli esiti dei CReG con il razionale e i risultati dell'esperienza decennale di GC le differenze appaiono evidenti. In comune hanno il medesimo oggetto (la gestione delle patologie croniche) ma per il resto le differenze di impostazione, metodo ed obiettivi non mancano. Proviamo a confrontare schematicamente il profilo "diagnostico" differenziale dei due modelli.
⦁ Progetto bottom-up versus top-down e poco condiviso. E' stato osservato che nessuno degli ideatori dei CReG si è preoccupato di consultare i diretti interessati nel momento di progettare l'apparato organizzativo proposto alla Medicina Generale; la normativa è stata calata dall'alto, a prescindere dalle condizioni del contesto e dalle pratiche della medicina del territorio. Esattamente l'opposto del GC, nato dall'esperienza di gestione del diabete mellito, cresciuto elettivamente dal basso, supportato da una formazione continua in piccoli gruppi distrettuali, sottoposto ad aggiustamenti delle procedure sulla base dei risultati, con correzioni e revisioni dei PDTA, l'architrave clinica del progetto etc... Insomma da un lato una gestione concertata e condivisa dal basso, sebbene "alla buona", a fronte di un progetto astratto rispetto al contesto e calato dall'alto senza adeguata condivisione.
⦁ Gestione informale versus formale. L'informalità della gestione dei singoli casi e dell'applicazione dei PDTA nel setting della MG è la cifra dell'esperienza del CG, in continuità con il progetto di Disease managment; al contrario i CReG scontano una tendenza alla formalizzazione, un'impostazione contabile e logiche prevalentemente finanziarie, sul modello dei DRG nosocomiali per l'acuzie. Come ho cercato di dimostrare nel post precedente, i DRG per le loro caratteristiche non possono essere meccanicamente trasferiti al territorio e alla cronicità, ma devono per forza adattarsi alle caratteristiche del contesto, in cui prevale l'informalità della relazione fiduciaria e della presa in carico.
⦁ Procedure semplificate versus burocratizzazione. L'apparato burocratico-amministrativo previsto dai CReG è farraginoso e barocco - in stridente contrasto con la retorica della semplificazione delle procedure - specie se confrontato con la semplicità e linearità del GC, rispettoso delle pratiche e adattato al contesto operativo delle cure primarie; con il passare degli anni il GC si mimetizzato nell'attività routinaria, tanto da passare ormai inosservato, ed è diventato patrimonio comunitario ed identitario della MG bresciana (a parte il problema della registrazione degli esami, che resta il punto più critico della gestione informatica).
⦁ Per ultimo alcune considerazioni sul PAI, il compito più impegnativo dei GReG. La definizione a priori del fabbisogno diagnostico-terapeutico dei singoli assistiti risponde ad una logica previsionale, ancora di matrice amministrativa e contabile, a mo' di bilancio preventivo e consuntivo nel singolo caso, non correlato con gli esiti clinici nella popolazione. Nella realtà quotidiana del GC il PAI coincide con il PDTA nel suo complesso, che stabilisce i paletti piuttosto laschi delle buone pratiche da applicare caso per caso e al variare dell’evoluzione del quadro clinico. Il GC in sostanza realizza un adattamento, negoziato e situato, delle indicazioni generali del PDT, sulla base delle esigenze individuali e della variabilità dei casi, che è proprio del contesto delle cure primarie, a fronte della rigida definizione a priori dei PAI.
In conclusione il CG è il prodotto “storico” ed originale di un progetto aperto, situato e adattato al contesto della MG, perché cresciuto dal basso, in armonia con le pratiche clinico-assistenziali, informatiche, organizzative e sociorelazionali del territorio. Sarebbe un peccato disperdere il valore aggiunto di queste esperienza, riconducendola alle mere logiche finanziarie e contabili dei CReG.
giovedì 15 settembre 2016
La gestione della cronicità tra DRG e CReG
A distanza di quasi vent'anni dall'introduzione dei DRG nella legislazione nazionale la Regione Lombardia, a partire dalla seconda decade del nuovo secolo, ha avviato una sperimentazione per trasferire il modello dei DRG sul territorio alla gestione delle patologie croniche ad elevata prevalenza, segnatamente cardiovascolari (ipertensione, vasculopatie, scompenso cardiaco) metaboliche (diabete mellito e dislipidemie) e respiratorie (BPCO ed asma bronchiale). Sono stati così varati i CReG, ovvero Cronic Related Group, dapprima in alcune ASL in modo sperimentale e poi via via al resto della regione ( http://tinyurl.com/hxk95vp, http://tinyurl.com/gvlo5oz ).
Vediamo innanzi tutto quali sono le differenze tra DRG ospedaliero e CReG territoriale. Il DRG nasce, per importazione dagli USA, all'inizio degli anni novanta, per superare il precedente pagamento per giornate di degenza; il modello gestionale si è subito adattato al contesto organizzativo ospedaliero, in particolare a tutte le branche chirurgiche che si prestano ad un'organizzazione a tipo catena di montaggio fordista, con un uso intensivo dei posti letto e delle sale chirurgiche (vedi l'imponente offerta chirurgica protesica, cardiovascolare ed ortopedica, del privato accreditato, a ciclo continuo: pre-ricovero, ricovero ed intervento, dimissione precoce e visita di controllo).
In chirurgia infatti è possibile attuare una concentrazione spazio-temporale dei processi organizzativi, delle risoree umane, professionali e tecnologiche e quindi garantire la programmazione del turn-over dei pazienti ed esiti clinici prevedibili, che è alla base della convenienza economica del DRG per l’attore privato. La prevedibilità organizzativa è più aleatoria nei reparti di medicina, dove prevalgono le polipatologie e la complessità clinica, seppur filtrata dalla condizione acuta o di scompenso d'organo; nei reparti medici è meno garantita la prevedibilità dei tempi di ospedalizzazione per la variabilità dell'evoluzione dei quadri sindromici complessi (complicazioni, infezioni nosocomiali, tempi di attesa degli esami, dimissioni protette etc..) e dell'incertezza circa gli esiti clinici della degenza.
Per le patologie croniche sul territorio vale lo stesso discorso, ma con un'ulteriore dose di variabilità e sfaccettatura epidemiologica, per l'ampio ventaglio del casemix ambulatoriale, ma soprattutto perchè alla concentrazione spazio-temporale dei processi clinico-organizzativi nosocomiali si sostituisce una rete assistenziale dispersa, composta da una pluralità di attori, distribuita a vari livelli e "diluita" nello spazio e nel tempo.
Questa differenza infrastrutturale e spazio-temporale si riflette sui processi assistenziali (concentrazione ospedaliera versus dispersione territoriale) e sull'aspetto economico: il rimborso del DRG, in presenza di esiti abbastanza certi come quelli chirurgici di routine (la tariffa prefissata, dall'appendicectomia alla protesi d'anca, senza complicazioni) copre abbastanza bene le risorse impiegate; al contrario la cifra media prevista dal CReG per il diabetico deve essere spalmata su una gamma di casi ampia e differenziata, in termini di intensità clinico-assistenziale e di consumi, che nel diabete spazia dal tipo II ben compensato con dieta ed attività fisica fino a quello in politerapia con complicanze, disabilità, seguito dal centro antidiabetico e/o in ADI infermieristica.
Ergo il budget del diabetico complicato in CReG non può essere addebitato al singolo MMG ma va distribuito nella rete assistenziale nel suo insieme, in quanto le decisioni prescrittive e di spesa per farmaci e/o accertamenti sono riconducibili e a carico dei diversi decisori che si alternano all'assistenza del paziente, specie se complesso (ad esempio, il diabetico in terapia con incretine, prescritte dal diabetologo del centro, e/o seguito dall'oculista per retinopatia, con controlli frequenti di FAG e/o OCT, o in terapia con un NAO per una FA etc..).
Ergo l'apparato statistico, contabile e finanziario – finalizzato alla verifica di quanto è effettivamente costato il diabetico rispetto al budget medio attribuito - è prevalente rispetto alla valutazione economica, nel senso della verifica dei risultati conseguiti in termini di processi ed esiti assistenziali a fronte delle risorse attribuite (previste ed effettivamente impiegate nel singolo caso e soprattutto nella popolazione), che è invece il valore aggiunto e distintivo del del GC rispetto ai CreG, in particolare riguardo aglii esiti nell'intera coorte di diabetici.
Perchè la sfera finanziaria non è equivalente a quella economica, come erroneamente si tende a credere. Questa differenza è rilevante ed attiene alla distinzione tra approccio amministrativo/contabile come nei CReG - bilancio tra entrate e uscite, spesa prevista e realizzata per i consumi di farmaci ed esami - versus l'accountability economica correlata al confronto tra spesa effettuata e esiti di salute dedotti dagli i indicatori di processo/esito a livello di report individuali e soprattutto collettivi. La sfera economica attiene al miglior uso delle risorse disponibili, non su base meramente finanziaria, ma in rapporto agli obiettivi attesi ed ai risultati pratci conseguiti, previa valutazione di obiettivi alternativi (rapporto costo/opportunità).
Insomma, non basta un'accurata lista della spesa per ogni malato cronico, nella logica del budget, ma servono valutazioni ben più complesse e sfaccettate, per salvaguardare e gestire al meglio il budget di salute individuale e di popolazione.
Vediamo innanzi tutto quali sono le differenze tra DRG ospedaliero e CReG territoriale. Il DRG nasce, per importazione dagli USA, all'inizio degli anni novanta, per superare il precedente pagamento per giornate di degenza; il modello gestionale si è subito adattato al contesto organizzativo ospedaliero, in particolare a tutte le branche chirurgiche che si prestano ad un'organizzazione a tipo catena di montaggio fordista, con un uso intensivo dei posti letto e delle sale chirurgiche (vedi l'imponente offerta chirurgica protesica, cardiovascolare ed ortopedica, del privato accreditato, a ciclo continuo: pre-ricovero, ricovero ed intervento, dimissione precoce e visita di controllo).
In chirurgia infatti è possibile attuare una concentrazione spazio-temporale dei processi organizzativi, delle risoree umane, professionali e tecnologiche e quindi garantire la programmazione del turn-over dei pazienti ed esiti clinici prevedibili, che è alla base della convenienza economica del DRG per l’attore privato. La prevedibilità organizzativa è più aleatoria nei reparti di medicina, dove prevalgono le polipatologie e la complessità clinica, seppur filtrata dalla condizione acuta o di scompenso d'organo; nei reparti medici è meno garantita la prevedibilità dei tempi di ospedalizzazione per la variabilità dell'evoluzione dei quadri sindromici complessi (complicazioni, infezioni nosocomiali, tempi di attesa degli esami, dimissioni protette etc..) e dell'incertezza circa gli esiti clinici della degenza.
Per le patologie croniche sul territorio vale lo stesso discorso, ma con un'ulteriore dose di variabilità e sfaccettatura epidemiologica, per l'ampio ventaglio del casemix ambulatoriale, ma soprattutto perchè alla concentrazione spazio-temporale dei processi clinico-organizzativi nosocomiali si sostituisce una rete assistenziale dispersa, composta da una pluralità di attori, distribuita a vari livelli e "diluita" nello spazio e nel tempo.
Questa differenza infrastrutturale e spazio-temporale si riflette sui processi assistenziali (concentrazione ospedaliera versus dispersione territoriale) e sull'aspetto economico: il rimborso del DRG, in presenza di esiti abbastanza certi come quelli chirurgici di routine (la tariffa prefissata, dall'appendicectomia alla protesi d'anca, senza complicazioni) copre abbastanza bene le risorse impiegate; al contrario la cifra media prevista dal CReG per il diabetico deve essere spalmata su una gamma di casi ampia e differenziata, in termini di intensità clinico-assistenziale e di consumi, che nel diabete spazia dal tipo II ben compensato con dieta ed attività fisica fino a quello in politerapia con complicanze, disabilità, seguito dal centro antidiabetico e/o in ADI infermieristica.
Ergo il budget del diabetico complicato in CReG non può essere addebitato al singolo MMG ma va distribuito nella rete assistenziale nel suo insieme, in quanto le decisioni prescrittive e di spesa per farmaci e/o accertamenti sono riconducibili e a carico dei diversi decisori che si alternano all'assistenza del paziente, specie se complesso (ad esempio, il diabetico in terapia con incretine, prescritte dal diabetologo del centro, e/o seguito dall'oculista per retinopatia, con controlli frequenti di FAG e/o OCT, o in terapia con un NAO per una FA etc..).
Ergo l'apparato statistico, contabile e finanziario – finalizzato alla verifica di quanto è effettivamente costato il diabetico rispetto al budget medio attribuito - è prevalente rispetto alla valutazione economica, nel senso della verifica dei risultati conseguiti in termini di processi ed esiti assistenziali a fronte delle risorse attribuite (previste ed effettivamente impiegate nel singolo caso e soprattutto nella popolazione), che è invece il valore aggiunto e distintivo del del GC rispetto ai CreG, in particolare riguardo aglii esiti nell'intera coorte di diabetici.
Perchè la sfera finanziaria non è equivalente a quella economica, come erroneamente si tende a credere. Questa differenza è rilevante ed attiene alla distinzione tra approccio amministrativo/contabile come nei CReG - bilancio tra entrate e uscite, spesa prevista e realizzata per i consumi di farmaci ed esami - versus l'accountability economica correlata al confronto tra spesa effettuata e esiti di salute dedotti dagli i indicatori di processo/esito a livello di report individuali e soprattutto collettivi. La sfera economica attiene al miglior uso delle risorse disponibili, non su base meramente finanziaria, ma in rapporto agli obiettivi attesi ed ai risultati pratci conseguiti, previa valutazione di obiettivi alternativi (rapporto costo/opportunità).
Insomma, non basta un'accurata lista della spesa per ogni malato cronico, nella logica del budget, ma servono valutazioni ben più complesse e sfaccettate, per salvaguardare e gestire al meglio il budget di salute individuale e di popolazione.
martedì 13 settembre 2016
Competenza professionale tra routine, variabilità ed esperienza pratica
La
competenza o expertise è la capacità del professionista di
adattarsi alla specificità delle condizioni cliniche, tecnologiche
ed organizzative e quindi di “accomodare” le indicazioni generali
di buona pratica clinica, di necessità astratte e
decontestualizzate, alle caratteristiche dei singoli assistiti nella
situazione data.
Lo
conferma una ricerca pubblicata dal prestigioso BMJ (
http://www.bmj.com/content/354/bmj.i3571
)
che
dimostra come gli esiti migliori in chirurgia sono correlati
all'esperienza maturata dal professionista in una specifica
patologia, vale a dire alla varietà e numerosità del repertorio di
casi osservati e curati, da quelli normali e di routine a quelli più
strani ed "eccentrici". La competenza professionale si
misura soprattutto sulla capacità di affrontare i casi non
routinari, ovvero quelli che richiedono un adattamento alla
situazione problematica, fondata su abilità tacite nel trovare
soluzioni nuove e non predefinite per far fronte all'irriducibile varietà
clinica.
Una
delle principali motivazioni che spinge ricercatori e clinici ad
elaborare protocolli, linee guida, percorsi, check list, flow-chart
etc.. è l'”lotta” alla variabilità patologica nel tentativo di
contenerla entro limiti fisiologici. La variabilità comportamentale
dei medici pratici viene abitualmente considerata una criticità,
un'anomalia da controllare grazie alla diffusione ed implementazione
degli strumenti sopra elencati, affinché di fronte alla medesima
condizione clinica tutti si comportino in modo omogeneo e
standardizzato, tale da garantire il medesimo esito atteso. In teoria
quindi qualsiasi chirurgo, previa adeguata formazione e un congruo
periodo di apprendistato, è nelle condizioni di applicare la tecnica
chirurgica standard e le procedure previste per una determinata
patologia, raggiungendo quindi gli stessi risultati di qualsiasi
altro collega. Pare che nella realtà fattuale le cose non stiano
propriamente così, come dimostra la ricerca del BMJ:
l'intercambiabilità dell'operatore non garantisce il raggiungimento
di esiti omogenei e definiti a priori.
Il
professionista competente invece è quello che sa adattarsi alla
varietà, unicità e complessità dei casi che non sono contemplati
nella routine delle procedure standardizzate. Grazie all'esperienza
riesce ad accumulare numerosi "esemplari" di situazioni non
ordinarie, che vanno a costituire un bagaglio di soluzioni pratiche
ed originali: solo la varietà degli schemi e dei “trucchi” del
mestiere può controllare la gamma delle situazioni problematiche.
Per le patologie ad elevata incidenza e bassa complessità qualsiasi
chirurgo raggiungerà facilmente quel pool di casi che rappresentano
lo zoccolo duro della competenza acquisita. Ben diverso è il caso
delle malattie a bassa prevalenza ed elevata complessità tecnica,
con indicazioni e tecniche chirurgiche specifiche, che vengono
generalmente gestite in centri dedicati ,dove è possibile accumulare
un numero sufficiente di casi che consente al professionista di fare
un'adeguata esperienza della variabilità dei casi clinici.
I
dati del BMJ dimostrano che l'apprendimento è correlato alle
pratiche e all'esperienza sul campo e meno all'acquisizione
individuale delle specifiche tecniche esplicite, nella sola sfera
cognitiva, il che per un'attività come la chirurgia può apparire
scontato e banale. Per di più nella chirurgia la componente tacita
della competenza è intuitivamente prevalente sulla cognizione
astratta e decontestualizzata, perchè impossibile da rendere
compiutamente a parole, tramite descrizioni scritte o lezioni, in
quanto legata ai gesti, all'uso di strumenti e alle abilità manuali.
La
stessa conclusione è un po' meno "triviale" se viene
estesa alle discipline mediche, in cui la componente teorica, delle
nozioni generali e specifiche sembrerebbe prevalente sulle pratiche,
considerate una semplice e meccanica derivazione della teoria,
secondo il modello della razionalità tecnica. Ma nella realtà anche
la competenza internistica o del MMG si fonda sulle esperienze
pratiche intese in senso multidimensionale, ovvero sulle abilità
relazionali, comunicative e decisionali, condizionate dal vissuto
personale, emotivo e corporeo, dal contesto socio-organizzativo ed
epidemiologico dell'attività professionale. Insomma, come
sottolineano gli psicologi sociali, apprendimento, conoscenza e
competenza professionale sono irriducibilmente "dense",
distribuite e mediate da artefatti/strumenti tecnologici, situate
nelle pratiche, radicate nell'esperienza corporea e nella riflessione
nel corso dell'azione.
mercoledì 17 agosto 2016
Emozioni e razionalità alleate nel procedimento diagnostico
Filosofi della scienza ed epistemologi godono di una fama di logici implacabili, freddi calcolatori e stringenti ragionatori, che lasciano poco spazio alle sfumature, alle sensazioni e alle emozioni. Niente di più falso, perlomeno per quanto riguarda due esponenti della categogia che, al contrario, prendono le mosse proprio dalle sensazioni e dalle emozioni per sviluppare le loro teorie della conoscenza: sia il pragmatista americano John Dewey che il razionalista critico Karl Popper hanno affrontato i problemi della conoscenza e dell'errore (specie il secondo) partendo dal vissuto soggettivo, pur da diverse angolature.
Ecco alcune considerazioni sull'importanza della sorpresa, e in generale delle reazioni emotive legate all'esperienza nel procedimento clinico; la percezione di una fastidiosa discrepanza (vedi il post precedente) o un di disagio cognitivo possono essere la chiave di volta per riconoscere il quasi-errore e, soprattutto, per prevenire le conseguenze dell'errore franco.
1-John Dewey ad onor del vero non affronta specificatamente il problema dell’errore, ma bensì le situazioni problematiche che per le loro difficoltà possono esitare in un errore e richiedono un approccio critico. L'indagine prende avvio da una sensazione di sorpresa, sconcerto, dubbio ed incertezza di fronte a problemi inattesi che non rientrano nelle consuete modalità routinarie di definizione e soluzione. Dewey postula la coincidenza tra indagine, apprendimento e pensiero riflessivo: “La funzione del pensiero riflessivo è quella di trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un dubbio, di un’oscurità, di un conflitto, o un disturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa [.....] determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della situazione in una totalità unificata”.
Dal vissuto di disagio o sconcerto prende avvio l’indagine deweyana, che prevede il seguente percorso metododologico:
1. La situazione indeterminata come origine del processo di indagine
2. La suggestione e l’intellettualizzazione: la definizione del problema
3. La generazione di ipotesi e il ragionamento deduttivo: se....allora
4. La verifica empirica dell’ipotesi
5. La situazione rischiarata come esito finale dell’indagine
Secondo Dewey la prrocedura logica dell'indagine accomuna il ricercatore, l'educatore e il professionista pratico nel medesimo atteggiamento riflessivo a partire dall'esperienza problematica. E' agevole intravedere in fligrana nell'idagine deweyana, da un lato, il modello generale del problem solving e, dall’altro, quella particolare forma di indagine che è procedimento diagnostico, che inizia con la raccolta delle informazioni anamnestiche, prosegue con la definizione del sintomo chiave/problema, esita nella generazione delle ipotesi e nella loro verifica, tramite ulteriori informazioni ricavate dall'esame obiettivo e/o dalle indagini cliniche, preludio alla terapia razionale.
2-Karl Popper, dal canto suo, individua nella sorpresa, intesa come gap tra fatti ed aspettativa che le cose vadano in un certo modo, il motore del cambiamento teorico: Popper fa l'esempio pratico della discesa dalle scale e della sorpresa che si sperimenta quando si ritiene di essere arrivati in fondo, ma in realtà c'e' ancora un gradino che inconsciamente non era previsto. Afferma Popper: "La nostra conoscenza inconsapevole assume spesso il carattere di aspettative inconsce, e talora ci rendiamo conto di aver avuto un’aspettativa di questo genere solo quando essa si rivela infondata [....]. Ciò mi indusse a questa formulazione: quando un evento ci sorprende, la sorpresa è di solito dovuta all’aspettativa inconscia che debba succedere qualcosa di diverso".
Più prosaicamente si potrebbe fare un'altro esempio di comune riscontro pratico, vale a dire la sorpresa che si prova quando ci si siede sul water senza accorgersi che in realtà manca la...."ciambella". In entrambi i casi la “teoria” implicita viene invalidata dai fatti, generando la sorpresa" per la discrepanza tra ciò che ci aspettavamo e ciò che abbiamo sperimentato. Ecco quindi le basi interpretative della sorpresa che si prova di fronte ad un esito clinico non messo in conto, ad esempio un esame diagnostico che dimostra la presenza di una patologia rara; in casi simili la reazione emotiva è l'antecedente diretto del quasi errore, il suo "precursore", e il grado di sorpresa è proporzionale alla distanza tra l'ipotesi e la realtà. Nel senso che il dato "oggettivo" rivela la discrepanza tra il problema e sua rappresentazione "soggettiva": l'ipotesi diagnostica che ha motiva la richiesta dell'accertamento clinico, per quanto vaga e nebulosa, si rivela infondata e viene bruscamente scalzata da un riscontro inaspettato e perciò sorprendente (vedasi il post precedente sul mismatch cognitivo, che è l'altra faccia della sorpresa).
In termini pratici capita che l'esito di un accertamento diagnostico conduca ad una diagnosi che mai si era immaginata, in quanto estranea alle aspettative routinarie, ovvero alla "teoria" implicita del caso. Il quasi-errore consiste proprio nella mancanza di questa sorpresa, perlomeno nelle prime fasi del procedimento o fino a quando, magari nel follow-uo, emerge un nuovo dato. Quello che appariva un caso come tanti si trasforma quando una nuova informazione cambia la rappresentazione della vicenda, fino alla reazione di disappunto per l'inattesa sorpresa: "perchè non ci avevo pensato prima (alla diagnosi corretta), cosa mi ha impedito di porre l'ipotesi diagnostica giusta?".
Insomma le sfumature emotive contano, che si presentino alla coscienza come tenui variazioni cromatiche di dubbio o generico disturbo/disagio, piuttosto che improvvisi cambiamenti di colore, come un'inattesa sorpresa.
BIBLIOGRAFIA
⦁ AA VV, I grandi filosofi: Dewey, vita, pensiero, opere scelte. Il Sole 24 Ore, Milano, 2008
⦁ Popper K.R., Verso una teoria evoluzionisticaa della conoscenza, Armando, Roma, 1999
⦁ Striano M., Per una teoria educativa dell'indagine, Pensa Multimedia, 2016
Ecco alcune considerazioni sull'importanza della sorpresa, e in generale delle reazioni emotive legate all'esperienza nel procedimento clinico; la percezione di una fastidiosa discrepanza (vedi il post precedente) o un di disagio cognitivo possono essere la chiave di volta per riconoscere il quasi-errore e, soprattutto, per prevenire le conseguenze dell'errore franco.
1-John Dewey ad onor del vero non affronta specificatamente il problema dell’errore, ma bensì le situazioni problematiche che per le loro difficoltà possono esitare in un errore e richiedono un approccio critico. L'indagine prende avvio da una sensazione di sorpresa, sconcerto, dubbio ed incertezza di fronte a problemi inattesi che non rientrano nelle consuete modalità routinarie di definizione e soluzione. Dewey postula la coincidenza tra indagine, apprendimento e pensiero riflessivo: “La funzione del pensiero riflessivo è quella di trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un dubbio, di un’oscurità, di un conflitto, o un disturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa [.....] determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della situazione in una totalità unificata”.
Dal vissuto di disagio o sconcerto prende avvio l’indagine deweyana, che prevede il seguente percorso metododologico:
1. La situazione indeterminata come origine del processo di indagine
2. La suggestione e l’intellettualizzazione: la definizione del problema
3. La generazione di ipotesi e il ragionamento deduttivo: se....allora
4. La verifica empirica dell’ipotesi
5. La situazione rischiarata come esito finale dell’indagine
Secondo Dewey la prrocedura logica dell'indagine accomuna il ricercatore, l'educatore e il professionista pratico nel medesimo atteggiamento riflessivo a partire dall'esperienza problematica. E' agevole intravedere in fligrana nell'idagine deweyana, da un lato, il modello generale del problem solving e, dall’altro, quella particolare forma di indagine che è procedimento diagnostico, che inizia con la raccolta delle informazioni anamnestiche, prosegue con la definizione del sintomo chiave/problema, esita nella generazione delle ipotesi e nella loro verifica, tramite ulteriori informazioni ricavate dall'esame obiettivo e/o dalle indagini cliniche, preludio alla terapia razionale.
2-Karl Popper, dal canto suo, individua nella sorpresa, intesa come gap tra fatti ed aspettativa che le cose vadano in un certo modo, il motore del cambiamento teorico: Popper fa l'esempio pratico della discesa dalle scale e della sorpresa che si sperimenta quando si ritiene di essere arrivati in fondo, ma in realtà c'e' ancora un gradino che inconsciamente non era previsto. Afferma Popper: "La nostra conoscenza inconsapevole assume spesso il carattere di aspettative inconsce, e talora ci rendiamo conto di aver avuto un’aspettativa di questo genere solo quando essa si rivela infondata [....]. Ciò mi indusse a questa formulazione: quando un evento ci sorprende, la sorpresa è di solito dovuta all’aspettativa inconscia che debba succedere qualcosa di diverso".
Più prosaicamente si potrebbe fare un'altro esempio di comune riscontro pratico, vale a dire la sorpresa che si prova quando ci si siede sul water senza accorgersi che in realtà manca la...."ciambella". In entrambi i casi la “teoria” implicita viene invalidata dai fatti, generando la sorpresa" per la discrepanza tra ciò che ci aspettavamo e ciò che abbiamo sperimentato. Ecco quindi le basi interpretative della sorpresa che si prova di fronte ad un esito clinico non messo in conto, ad esempio un esame diagnostico che dimostra la presenza di una patologia rara; in casi simili la reazione emotiva è l'antecedente diretto del quasi errore, il suo "precursore", e il grado di sorpresa è proporzionale alla distanza tra l'ipotesi e la realtà. Nel senso che il dato "oggettivo" rivela la discrepanza tra il problema e sua rappresentazione "soggettiva": l'ipotesi diagnostica che ha motiva la richiesta dell'accertamento clinico, per quanto vaga e nebulosa, si rivela infondata e viene bruscamente scalzata da un riscontro inaspettato e perciò sorprendente (vedasi il post precedente sul mismatch cognitivo, che è l'altra faccia della sorpresa).
In termini pratici capita che l'esito di un accertamento diagnostico conduca ad una diagnosi che mai si era immaginata, in quanto estranea alle aspettative routinarie, ovvero alla "teoria" implicita del caso. Il quasi-errore consiste proprio nella mancanza di questa sorpresa, perlomeno nelle prime fasi del procedimento o fino a quando, magari nel follow-uo, emerge un nuovo dato. Quello che appariva un caso come tanti si trasforma quando una nuova informazione cambia la rappresentazione della vicenda, fino alla reazione di disappunto per l'inattesa sorpresa: "perchè non ci avevo pensato prima (alla diagnosi corretta), cosa mi ha impedito di porre l'ipotesi diagnostica giusta?".
Insomma le sfumature emotive contano, che si presentino alla coscienza come tenui variazioni cromatiche di dubbio o generico disturbo/disagio, piuttosto che improvvisi cambiamenti di colore, come un'inattesa sorpresa.
BIBLIOGRAFIA
⦁ AA VV, I grandi filosofi: Dewey, vita, pensiero, opere scelte. Il Sole 24 Ore, Milano, 2008
⦁ Popper K.R., Verso una teoria evoluzionisticaa della conoscenza, Armando, Roma, 1999
⦁ Striano M., Per una teoria educativa dell'indagine, Pensa Multimedia, 2016
mercoledì 10 agosto 2016
Mismatch cognitivo e quasi errore diagnostico
La
teoria della decisione è dominata da due diverse impostazioni: i
modelli istruttivi o normativi, che prescrivono al decisore il
miglior modo per raggiungere l’obiettivo (la teoria della scelta
razionale), e quelli descrittivi, che all’ opposto si limitano ad
osservare e prendere atto dei processi decisionali messi in atto dai
soggetti, in contesti sperimentali o naturali. Nel campo dell’errore
medico prevalgono gli approcci normativi: i modelli bayesiani e il
cosiddetto risck management (RM). Entrambi suggeriscono il modo
migliore per decidere ma, ciononostante, la gente resta
inesorabilmente affetta da fallibilità e quindi serve a poco
indicare la retta via se poi ogni tanto nella vita reale si imbocca
quella sbagliata.
Secondo
il primo filone il decisore per conseguire il suo intento basta che
applichi in modo rigoroso il teorema di Bayes, cioè la complicata
formula elaborata del reverendo inglese per correggere le probabilità
di un evento alla luce dell’acquisizione di nuove informazioni. Per
decidere correttamente serve quindi un soggetto iper-razionale,
freddo calcolatore in grado di computare tutte le informazioni in suo
possesso, ma non è affatto facile trovare nella realtà fattuale un
soggetto in grado di portare a termine in tempi utili e di routine
calcoli così complicati, ammesso che disponga di capacità mentali
sufficienti e i dati per applicare la fatidica formula.
Secondo
il RM invece per evitare sbagli basta seguire procedure predefinite
che sono una sorta di garanzia di “infallibilità”. Il
RM si concentra sugli eventi avversi prevedibili, cioè quelli che
possono essere evitati applicando in modo scrupoloso protocolli
operativi, linee guida, check list, schemi d'azione etc.. garanti
dell'efficacia/successo clinico. Da qui la definizione di errore,
inteso come “fallimento
nella pianificazione o esecuzione di una sequenza di azioni che
determina il mancato raggiungimento, non casuale, dell’obbiettivo
desiderato".
Ma se in un certo settore mancano LLGG o ve ne sono più di una, tra
loro dissonanti? Entrambi i modelli condividono la stessa
impostazione istruttiva, il
medesimo presupposto implicito in base al quale per evitare l’errore
basta applicare
regole, procedure, formule, linee guide etc.,
predefinite
da ricercatori e “tecnici”, da
implementare nella pratica clinica.
I
decisori in carne ed ossa sono purtroppo affetti da una irrimediabile
“razionalità limitata” individuale, formula coniata oltre mezzo
secolo fa del premio Nobel per l'economia Herbert Simon per
descrivere come in realtà vengono prese le decisioni nei contesti
naturali: oggi si direbbe, in modo scherzoso, che le persone
utilizzano le
formule in modo
spannometrico. Servirebbe
invece una sorta di navigatore che avverta per tempo il decisore che,
il più delle volte inconsapevolmente, ha scelto un tragitto
sbagliato, onde evitare che dal quasi errore cada nell'errore. Perchè mentre si sta sbagliando non ci si accorge dell'errore, che richiede uno scarto temporale per emergere dall'inconscio cognitivo alla consapevolezza.
La
chiave di volta stà in un un aforisma del filosofo Cartesio che
recita: l’errore consiste semplicemente nel fatto che non sembra
tale. Se lo sbaglio sfugge alla percezione e alla consapevolezza, in
quanto inapparente e subdolo, il primo obiettivo pratico è quello di
percepire quanto prima l'errore stesso, il che non è agevole proprio
per il suo carattere sfuggente e sub-liminale. Nel momento in cui si
compie non ci si avvede dell’errore per una sorta di anosognosia
cognitiva, simile a quella che colpisce alcuni soggetti affetti da un
deficit neurologico motorio, che però disconoscono come tale,
comportandosi come se nulla fosse e come se potessero contare
sull’integrità del sistema motorio. Serve quindi una tecnica, una
procedura affidabile che smascheri l'anosognosia cognitiva e riveli
l’errore all’errante inconsapevole, quanto più precocemente per
poter rimediare e correggere il percorso. Discrepanza temporale e mismatch cognitivo sono le due facce della stessa medaglia.
Alcuni
psicologi (Rizzo et al 1996) hanno proposto un modello a più stadi,
per descrivere il processo di "svelamento" dell'errore,
così articolato:
1. il
primo passo consiste nell’ emergere di una discrepanza
percettivo-valutativa (mismatch) spesso in modo vago ed “epidermico”,
a pelle
2. a
cui segue la scoperta (consapevolezza) che è stato commesso un
errore
3. l'identificazione
(individuazione) dell'origine e
della natura della
discrepanza
4. il
superamento della discrepanza tra obiettivo prefissato e il risultato
conseguito (strategie per eliminarla, capirla e rimuovere le cause).
La
mismatch è frutto della mancata corrispondenza tra informazioni ed
aspettative (ipotesi, previsioni etc..) e dati empirici, oppure al
fatto che queste non sono corrette o non sono state aggiornate. Gli
autori si riferisco più che altro ad azioni finalizzate e procedure
pratiche; nel campo della diagnosi medica significa che serve una
certa sensibilità per percepire i segnali di mismatch o ricercare
attivamente i feed-back che testimoniano la discrepanza tra realtà e
la sua rappresentazione mentale, che è il punto nodale per
riconoscere quanto più precocemente il quasi-errore diagnostico, affinché
non si traduca in
errore vero
e proprio
dalle conseguenze pratiche.
A
volte la discrepanza parte da una sensazione sgradevole di
insoddisfazione, da uno stato d'animo di perplessità, di fastidioso
dubbio o sfasatura; in altri casi invece si presenta come
un'improvvisa "sorpresa", rivelazione o illuminazione sulla
differenza tra rappresentazione e realtà dei fatti. Il disagio
cognitivo indotto dal mismatch è radicato nel vissuto e può essere
superato con un atteggiamento di riflessione sull'esperienza, dai
connotati meta-cognitivi chiaramente distanti se non antitetici
rispetto all'impostazione istruttiva del RM.
domenica 7 agosto 2016
Decisioni pratiche situate, opinioni degli esperti e metanalisi
Una
delle caratteristiche della competenza professionale è quella di
sapersi adattare alla specificità del contesto professionale,
epidemiologico, organizzativo etc.. e quindi di “accomodare”
le indicazioni generali di buona pratica clinica alle particolari
condizioni dei singoli assistiti. Abilità che derivano
dall'esperienza pratica sul campo, più che dal bagaglio di nozioni
teoriche. Non
esiste una competenza astratta, decontestualizzata, irrelata rispetto
alle pratiche situate
e alle condizioni
locali;
tuttavia permane
una certa diffidenza nei confronti del medico pratico, spesso
non a suo agio con
statistiche
e formule
matematiche, senza le quali tuttavia
prende innumerevoli decisioni di fronte ai
singoli
pazienti.
Pesa
ancora la squalifica implicita nella gerarchia EBM delle evidenze,
quella piramide che vede al vertice revisioni sistematiche e
metanalisi mentre alla base stanno, appunto, le opinioni degli
esperti. Probabilmente
si tratta di
una squalifica involontaria della medicina pratica, ma di fatto
quella piramide ha finito per svalutare
e ridurre l'auto-stima di chi lavora
sul campo,
ovvero si sporca le mani con la relazione medico-paziente, invece che
con inferenze e formule statistiche,
facendo
affidamento sulle proprie opinioni e valutazioni estemporanee nel
momento della decisione
(per giunta da generalista e non certo da specialista).
Certo,
le opinioni degli esperti della piramide EBM non riguardano micro
scelte diagnostiche o terapeutiche ma considerazioni
generali
ed
evidenze
statisticamente
“oggettive”.
L'equivoco
nasce da
qui:
dal punto di vista delle prove
di popolazione, astratte rispetto al contesto e relative ad
ideal-tipi nosografici
impersonali
- come i
soggetti arruolati
nei trial randomizzati in
base
di
criteri di esclusione - valgono certamente più le conclusioni delle
metanalisi che non le opinioni di un clinico pratico. Ma di fronte a
malati in carne ed ossa, nei contesti decisionali e nelle situazioni
pratiche, specie
alle
prese con casi caratterizzati da varietà, unicità e complessità
polipatologica - come la stragrande maggioranza dei malati comorbidi
- forse
le opinioni del medico
al letto del malato
non
sono meno
importanti
dei risultati dell'ultima
revisione sistematica.
Proviamo ad immaginare uno scambio di ruoli: cosa
succederebbe se un “pratico”
lavorasse
per una settimana in un centro epidemiologico,
ad
elaborare metanalisi, a
fronte della presenza di un epidemiologo
in un ambulatorio di MG sul territorio? Di sicuro il
generalista rischierebbe di combinare un
bel po' di disastri con formule matematiche e statistiche mediche.
Forse
è arrivato il tempo di sdoganare l'approccio
del
“pratico” e le sue opinioni di esperto situato.
Il
presupposto della superiore validità delle metanalisi, rispetto alle
opinioni degli esperti, sta nell'idea che le elaborazioni statistiche
sui grandi numeri sono più aderenti alla realtà rispetto alle
conclusioni di
esperti, ricavate
dall'esperienza individuale,
su
casistiche limitate e non
selezionate.
A questo
proposito,
nelle ultime settimane ho avuto
modo di seguire
tre casi clinici
della stessa patologia cronica
e, riflettendo sulle tre vicende parallele, mi sono reso conto della
grande varietà dei decorsi e delle configurazioni
patologiche.
Praticamente nessuno dei tre era
affetto da una forma “pura” ma
tutti erano
invece portatori
di diverse
comorbilità, le più variegate sia nel percorso
diagnostico-terapeutico
che nella "narrazione"; a dimostrazione che nella pratica
ambulatoriale
le forme pure ed isolate, cioè le diagnosi prototipiche da
manuale,
sono praticamente inesistenti (a
differenza degli
studi clinici che
arruolano solo
candidati filtrati
da rigorosi
criteri di esclusione, ovvero selezionando
popolazioni minoritarie rispetto alla routine delle comorbilità,
specie
geriatriche).
Per
non parlare dell'area grigia di incertezza prevalente
in MG,
popolata da disturbi orfani di diagnosi, sindromi sotto-soglia, stati
al confine tra salute e malattia, soma
e psiche,
disturbi
auto-limitanti e transitori
etc.,
condizioni poco o per nulla “ebiemmizzabili”, per usare il
colorito neologismo coniato da Giorgio Bert.
In sostanza l'approccio
del pratico
è orientato
da studi clinici ed
elaborazioni statistiche
artificiali ed
eccentriche
rispetto alla
realtà fattuale; ciononostante
continuano
ad agire e prendere decisioni con quel tipo di "faro", che
illumina solo una porzione della realtà, ma
di necessità integrata
dalle opinioni maturate in situ e nelle condizioni cliniche
date.
La competenza del medico pratico non deve essere tanto teorica o legata all'aggiornamento continuo sulla letteratura EBM, ma va ritagliata sull'esperienza e sul contesto epidemiologico, nel senso della casistica media che può incontrare nell'attività ambulatoriale quotidiana. Quindi grande sensibilità diagnostica a 360 gradi, specie dei sintomi di esordio e della diagnosi differenziale dei disturbi comuni, e soprattutto capacità gestionale delle patologia ad elevata prevalenza, con delega della gestione agli specialisti per quelle a bassa prevalenza o rare, nei confronti delle quali non può farsi quell'ampia esperienza personale, senza la quale rischia di prendere decisioni poco appropriate.
Il bagaglio di conoscenze e la competenza professionale non sono correlate a nozioni astratte, aggiornamenti e abilità decontestualizzate, ma sono situate nel contesto epidemiologico, relazionale, organizzativo, "antropologico" etc..; in questo senso fa la differenza l'esperienza e la condivisione delle pratiche sul campo, che fanno il medico esperto in MG, ovvero quello che ha fatto e fa esperienza della gestione in situ dei casi e dei problemi prevalenti sul territorio.
La competenza del medico pratico non deve essere tanto teorica o legata all'aggiornamento continuo sulla letteratura EBM, ma va ritagliata sull'esperienza e sul contesto epidemiologico, nel senso della casistica media che può incontrare nell'attività ambulatoriale quotidiana. Quindi grande sensibilità diagnostica a 360 gradi, specie dei sintomi di esordio e della diagnosi differenziale dei disturbi comuni, e soprattutto capacità gestionale delle patologia ad elevata prevalenza, con delega della gestione agli specialisti per quelle a bassa prevalenza o rare, nei confronti delle quali non può farsi quell'ampia esperienza personale, senza la quale rischia di prendere decisioni poco appropriate.
Il bagaglio di conoscenze e la competenza professionale non sono correlate a nozioni astratte, aggiornamenti e abilità decontestualizzate, ma sono situate nel contesto epidemiologico, relazionale, organizzativo, "antropologico" etc..; in questo senso fa la differenza l'esperienza e la condivisione delle pratiche sul campo, che fanno il medico esperto in MG, ovvero quello che ha fatto e fa esperienza della gestione in situ dei casi e dei problemi prevalenti sul territorio.
martedì 2 agosto 2016
I nuovi codici di priorità, questi sconosciuti!
C'era
una volta il “bollino verde”, introdotto
all’ inizio del secolo
in Lombardia, per instradare in una corsia preferenziale le
cosiddette “urgenze differibili”. L’obiettivo era di offrire
un’alternativa all’ utilizzo
improprio
al
PS, onde contenere il sovraccarico delle strutture di
emergenza/urgenza: grazie all’ apposizione del fatidico adesivo
verde da parte del medico di MG la prestazione diagnostica o
specialistica poteva essere deviata sulle strutture ambulatoriali
ordinarie, che erano tenute a soddisfarla entro 72 ore dalla
prenotazione.
Ben
presto però il bollino verde è stato utilizzato per scopi non
previsti dagli amministratori regionali
e, invece di migliorare l’appropriatezza organizzativa e temporale
dell'offerta, e si è trasformato in un grimmaldello per aggirare le
lunghe liste d'attesa, in situazioni che nulla hanno
di urgente: per giunta in molti casi l'utilizzo dell'urgenza
differibile avviene su pressione dagli assistiti, per by-passare
liste d’attesa, o su “suggerimento” dal personale
amministrativo addetto alla prenotazione.
La
vicenda del “bollino verde” è un esempio delle conseguenze
inintenzionali e impreviste
di
una deliberazioni finalizzata a raggiungere bel altro obiettivo,
tantè che in alcuni casi in i CUP non procedono alla prenotazione
delle “urgenze differibili” per eccesso di richieste e con tempi
di esecuzione della prestazione ormai fuori controllo.
Come
rimediare agli effetti “perversi” del bollino verde, migliorare
l’appropriatezza organizzativa riducendo lo squilibrio tra domanda ed offerta di prestazioni
ambulatoriali? La
soluzione, caldeggiata da tempo dalla MG ( http://curprim.blogspot.it/2015/10/una-modesta-proposta-per-razionalizzare_26.html ), è arrivata all'inizio del
2016 anche in Lombardia, dopo essere stata sperimentata
in altre regioni: una
diversificazione dei criteri di priorità temporale delle prestazioni
ambulatoriali, in modo che la
varietà dell’offerta
organizzativa possa venire incontro alla varietà delle richieste
provenienti dal territorio.
Così
dal
2016 sono entrate in vigore nuove classi di priorità, nell'ambito
dell'introduzione della dematerializzazione delle prescrizioni di
diagnostica ambulatoriale (Ricetta Elettronica) e
come previsto
dal Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa 2010-2012, così
articolate:
- U= urgente (nel più breve tempo possibile o, se differibile, entro 72 ore)
-
B= entro 10 gg
-
D= entro 30 gg (visite) entro 60 gg (prestazioni strumentali)
-
P= programmabile
In
teoria a pieno regime i
nuovi “filtri” dell’accesso alle strutture d’offerta e il
conseguente
riassetto
organizzativo dovrebbero produrre un significativo miglioramento
dell'appropriatezza temporale ed organizzativa delle prestazioni
diagnostiche, conseguendo
alcuni obiettivi attesi da tutti gli attori:
-
riduzione del numero di bollini verdi inappropriati, grazie alla deviazioni delle prestazioni verso le priorità B e D;
-
percorsi diagnostici più adatti alle esigenze cliniche dei singoli casi e razionalizzazione organizzativa delle prestazioni ambulatoriali;
-
maggiore soddisfazione degli utenti, per una risposta più pronta ed efficace, in relazione ai bisogni soggettivi, e con minore ricorso alle prestazioni libero-professionali in alternativa all'offerta del SSR.
Purtroppo
però, a più sei mesi dall'entrata in vigore dei nuovi codici di
priorità, l'applicazione pratica delle nuove norme è ancora
incompleta e, come si suol dire, a macchia di Leopardo. Le strutture
erogatrici infatti stentano ad adattare la gestione delle agende di
prenotazione e
i sistemi informatici
ai nuovi standard e capita, non di rado, che la priorità venga del
tutto ignorata al momento della prenotazione dell'esame o della
visita ambulatoriale. Rispetto
all’auspicata appropriatezza
temporo-organizzativa, garantita
dai nuovi
criteri di priorità, prevale
una
puntigliosa richiesta di adattamento burocratico del
MMG alle
regole amministrative
delle
strutture, a
base di ripetizioni
e correzioni delle richieste quando queste
non collimano con le esigenze economico-finanziarie, a prescindere da
quelle cliniche.
sabato 11 giugno 2016
Virus e batteri pari non sono!
Non passa mese che gli organismi sanitari internazionali non lancino l'allarme sulla diffusione delle resistenze batteriche agli antibiotici, fenomeno ormai su scala planetaria, e che recentemente ha portato alla ribalta dei media un ceppo di E.Coli resistente a tutti gli antibiotici disponibili. Se ne è occupata anche la trasmissione televisiva Report, documentando come l'abuso di antibiotici in zootecnia sia responsabile della diffusione di Coli, Stafilococchi, Cambylobacter e Klebsielle multiresistenti, che arrivano agli uomini contaminando gli alimenti.
Se ne sta interessando attivamente in prima persona anche la ministra Lorenzin, che ha diffuso un comunicato in cui si ribadisce che "la resistenza agli antibiotici è un tema al centro del governo da tre anni, che ho portato anche durante il semestre della presidenza in Europa. Abbiamo avviato dei programmi in Italia e in Europa, e tra l'altro ora è all'ordine dei lavori come emergenza mondiale perché è la prima causa di morte negli ospedali in ambito Ghsi (Global health security initiative), G7 e in ambito dell''Oms. Insomma, una vera e propria emergenza mondiale".....omissis.....
“Si tratta della resistenza non a un VIRUS ma a molti ed è quindi multifattoriale - ha continuato il Ministro - Come si combatte la resistenza agli antibiotici? Si combatte in molti modi: il primo, avendo un consumo degli antibiotici durante la propria vita assolutamente appropriato, non assumendo per esempio antibiotici da soli perché magari abbiamo un po' di febbre"......omissis..... Ultimo tema, ancora, quello della ricerca sugli antibiotici: è evidente che i VIRUS si sono evoluti con un termine di resistenza e quindi si sta stimolando la ricerca sui nuovi antibiotici che possono combatterla". (il testo completo su http://www.regioni.it/sanita/2016/05/31/sanita-lorenzin-resistenza-antibiotici-tema-al-centro-agenda-461769/ ).
Lo "svarione" ministeriale dimostra in modo eclatante che il primo obiettivo di un'efficace campagna educazionale sul corretto uso degli antibiotici è quello di far comprendere alla gente la fondamentale differenza tra infezioni batteriche e virali; la confusione o l'incertezza sulla cuasa dell'infezione è spesso all'origine di un uso scorretto degli antibiotici.
Il medico di MG è coinvolto in prima persona in quanto nelle infiammazioni delle vie aeree (riniti, faringiti, laringotracheti e bronchiti) è difficile distinguere le forme batteriche da quelle virali e quindi prescrivere correttamente l'antibiotico. In altri tipi di infezioni invece, come quelle delle vie urinarie o intestinali, è possibili l'identificazione corretta dell'agente infettivo causale e quindi la scleta della terapia appropriata.
L’impostazione di una terapia razionale deve fare quindi i conti, specie sul territorio e per le infezioni delle vie respiratorie, con un deficit di strumenti conoscitivi che consentano di identificare la tipologia dell'infezione e stabilire, di conseguenze, qual'è l'antibiotico più efficace. In mancanza di queste informazioni essenziali non resta che la strada di un approccio terapeutico empirico, che induce il medico, nell'incertezza sull'eziologia, ad optare per un cura "alla cieca", anche per evitare di trascurare una forma batterica.
Il MMG è nell'impossibilità pratica di dirimere il dilemma terapeutico che più spesso affligge la pratica ambulatoriale, vale a dire la distinzione tra causa virale e batterica, specie in caso di febbre, rafreddore, mal di gola e tosse. Questo è il problema di fondo del MG di fronte ad assistiti che reclamano una terapia antibiotica per i propri disturbi "influenzali": se si potesse disporre di un test rapido ed affidabile per differenziare l’eziologia virale da quella batterica, verrebbero usati con maggiore appropriatezza gli antibiotici. Invece il medico pratico resta spesso nel dubbio e nell’incertezza sulla causa dei disturbi e non può far altro, in molti casi, che prescrivere l’antibiotico per “prudenza”.
Anche gli assistiti dovrebbero però sforzarsi di mettersi nei panni del medico curante, collaborare e magari condividere con il proprio medico un po’ dell’incertezza insita nell’attività pratica. E’ indubbio che l'informazione ai pazienti è fondamentale anche in questo settore, ma non quella a pioggia o generica, ad esempio con articoli sui media, perché di scarsa efficacia se non nel pieno dell'epidemia influenzale. Serve un'informazione e un intervento educativo mirato e selettivo, rivolto cioè a chi sta vivendo il problema, ovvero le persone con infezione delle vie aeree in atto, possibilmente concordato con gli altri attori del sistema (farmacisti, medici di CA e del PS). Insomma bisognerebbe condividere e tollerare le due facce dell'incertezza, quella cognitiva e quella pratica, obiettivo difficile per motivi culturali e sociali.
Se ne sta interessando attivamente in prima persona anche la ministra Lorenzin, che ha diffuso un comunicato in cui si ribadisce che "la resistenza agli antibiotici è un tema al centro del governo da tre anni, che ho portato anche durante il semestre della presidenza in Europa. Abbiamo avviato dei programmi in Italia e in Europa, e tra l'altro ora è all'ordine dei lavori come emergenza mondiale perché è la prima causa di morte negli ospedali in ambito Ghsi (Global health security initiative), G7 e in ambito dell''Oms. Insomma, una vera e propria emergenza mondiale".....omissis.....
“Si tratta della resistenza non a un VIRUS ma a molti ed è quindi multifattoriale - ha continuato il Ministro - Come si combatte la resistenza agli antibiotici? Si combatte in molti modi: il primo, avendo un consumo degli antibiotici durante la propria vita assolutamente appropriato, non assumendo per esempio antibiotici da soli perché magari abbiamo un po' di febbre"......omissis..... Ultimo tema, ancora, quello della ricerca sugli antibiotici: è evidente che i VIRUS si sono evoluti con un termine di resistenza e quindi si sta stimolando la ricerca sui nuovi antibiotici che possono combatterla". (il testo completo su http://www.regioni.it/sanita/2016/05/31/sanita-lorenzin-resistenza-antibiotici-tema-al-centro-agenda-461769/ ).
Lo "svarione" ministeriale dimostra in modo eclatante che il primo obiettivo di un'efficace campagna educazionale sul corretto uso degli antibiotici è quello di far comprendere alla gente la fondamentale differenza tra infezioni batteriche e virali; la confusione o l'incertezza sulla cuasa dell'infezione è spesso all'origine di un uso scorretto degli antibiotici.
Il medico di MG è coinvolto in prima persona in quanto nelle infiammazioni delle vie aeree (riniti, faringiti, laringotracheti e bronchiti) è difficile distinguere le forme batteriche da quelle virali e quindi prescrivere correttamente l'antibiotico. In altri tipi di infezioni invece, come quelle delle vie urinarie o intestinali, è possibili l'identificazione corretta dell'agente infettivo causale e quindi la scleta della terapia appropriata.
L’impostazione di una terapia razionale deve fare quindi i conti, specie sul territorio e per le infezioni delle vie respiratorie, con un deficit di strumenti conoscitivi che consentano di identificare la tipologia dell'infezione e stabilire, di conseguenze, qual'è l'antibiotico più efficace. In mancanza di queste informazioni essenziali non resta che la strada di un approccio terapeutico empirico, che induce il medico, nell'incertezza sull'eziologia, ad optare per un cura "alla cieca", anche per evitare di trascurare una forma batterica.
Il MMG è nell'impossibilità pratica di dirimere il dilemma terapeutico che più spesso affligge la pratica ambulatoriale, vale a dire la distinzione tra causa virale e batterica, specie in caso di febbre, rafreddore, mal di gola e tosse. Questo è il problema di fondo del MG di fronte ad assistiti che reclamano una terapia antibiotica per i propri disturbi "influenzali": se si potesse disporre di un test rapido ed affidabile per differenziare l’eziologia virale da quella batterica, verrebbero usati con maggiore appropriatezza gli antibiotici. Invece il medico pratico resta spesso nel dubbio e nell’incertezza sulla causa dei disturbi e non può far altro, in molti casi, che prescrivere l’antibiotico per “prudenza”.
Anche gli assistiti dovrebbero però sforzarsi di mettersi nei panni del medico curante, collaborare e magari condividere con il proprio medico un po’ dell’incertezza insita nell’attività pratica. E’ indubbio che l'informazione ai pazienti è fondamentale anche in questo settore, ma non quella a pioggia o generica, ad esempio con articoli sui media, perché di scarsa efficacia se non nel pieno dell'epidemia influenzale. Serve un'informazione e un intervento educativo mirato e selettivo, rivolto cioè a chi sta vivendo il problema, ovvero le persone con infezione delle vie aeree in atto, possibilmente concordato con gli altri attori del sistema (farmacisti, medici di CA e del PS). Insomma bisognerebbe condividere e tollerare le due facce dell'incertezza, quella cognitiva e quella pratica, obiettivo difficile per motivi culturali e sociali.
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