Il professor Pregliasco intervistato del Fatto Quotidiano ha lanciato l'ennesimo jaccuse verso la medicina generale: “I medici di famiglia sbagliano, troppe prescrizioni inutili”.
Con la seguente motivazione:“Spesso l’approccio del medico di base verso il paziente è quello di farlo stare bene al più presto, per cui gli somministra il farmaco più sicuro per ottenere un risultato possibilmente rapido. Si tratta però di un approccio sbagliato perché risolve il problema a breve termine, ma porta nel tempo alla diffusione della resistenza agli antibiotici. Per esempio, nelle infezioni respiratorie c’è un 30% di prescrizioni inutili perché l’antibiotico viene somministrato a copertura di una possibile sovrainfezioni batterica successiva all’infezione respiratoria, legata nel 99% dei casi ai virus per il quale l’antibiotico è inutile; oppure sarebbe fondamentale eseguire un esame, l’antibiogramma, per stabilire quale antibiotico è più indicato per la specifica infezione, ma questo spesso non è possibile per il medico di famiglia e allora può succedere di prescrivere un antibiotico non adatto al caso specifico".
L'accusa è quella di inappropriatezza prescrittiva per eccesso immotivato di antibiotici, in relazione al particolare contesto territoriale caratterizzato da carenza o incompletezza di informazioni per il deficit di supporti diagnostici (test microbiologici ed ematici) e tecnologici (radiografie) finalizzati ad una diagnosi eziologica. Il punto chiave è la definizione o strutturazione cognitiva del problema come premessa per l'impostazione della soluzione: secondo l'nfettivologo milanese la prescrizione dell' antibiotico all'influenzato ha l'obiettivo "di farlo stare bene al più presto, per cui gli somministra il farmaco più sicuro per ottenere un risultato possibilmente rapido". Sarebbe insomma una questione di fiducia in una remissione qualitativa dei sintomi e in una rapida guarigione, quasi che il medico ignori la natura prevalentemente virale delle affezioni delle vie aeree superiori e/o l'inefficacia clinica dell'antibiotico - se non in caso di complicanze o "ricadute" batteriche - e che il normale decorso della sindrome influenzale febbrile non è influenzato dall'antibiotico, potendo arrivare fino alla settimana.
In realtà il problema del medico pratico è un altro, ovvero la gestione dell'incertezza, correlata al fatto che le informazioni a sua dispoizione per una diagnosi eziologica sono incomplete e che per fronteggiare tale condizione egli sente il bisogno di tutelarsi dal rischio clinico e medico-legale di sotto-diagnosticare o sottovalutare un'infezione o complicanza batterica; il suo obiettivo non è tanto di "far star bene al più presto con un risultato possibilmente rapido" ma prescrivere un antibiotico a scopo cautelativo tra i pazienti ritenuti a rischio, anche per l'influenza di fattori extra clinici. E' una scelta prudenziale, non meno frequente in ambiente ospedaliero come il PS, per prevenire esiti inattesi.
Una volta strutturato il problema in un frame di incertezza diagnostica le possibili soluzioni "eziologiche" sono logicamente conseguenti e razionali. In particolare tre sono gli strumenti per rendere appropriata la terapia antibiotica: i test antigenici multipli - in pochi minuti con un unico tampone nasale è possibile distinguere tra virus influenzali, SARS-COV-2 e virus respirazorio sinciziale - il Kit per il dosaggio rapido della PCR e l'ecografia polmonare (l'approccio eziologico specifico, suggerito da Presgliasco, è possibile solo con il tapone faringeo rapido per la ricerca dello streptococco). Ovviamente esistono alcune pre-condizioni per poter impiegare di routine questi strumenti nell'AP in pazienti selezionati: risorse per formazione degli operatori sanitari, fornitura della strumentazione, organizzazione adeguata (collaboratori) e tempo a disposizione per impostare e portare a termine il processo diagnostico-terapeutico.
Ma torniamo all'inquadramento epidemiologico delle prescrizioni antibiotiche sul territorio come primo passo per analisi empiriche e azioni concrete. Volendo affrontare il problema in modo scientifico, rigoroso e documentato, circa il consumo appropriato o meno di antibatterici in Italia, conviene rifarsi ai modelli storici di valutazione e miglioramento dell'appropriatezza in sanità. Tutto nasce all'inizio degli anni novanta del secolo scorso quando la Rand Corporation californiana scopre la consistente variabilità "patologica", fino al 30%, nei tassi di ricovero, interventi chirurgici e prestazioni sanitarie in diverse aree cliniche e geografiche, sia britanniche che statunitensi, ritenuta meritevole di correzione dalle medie per riportare il fenomeno alla "fisiologia".
Se adottiamo lo stesso criterio per la prescrizione di antibiotici dobbiamo partire dalla variabilità geografica delle DDD delle prescrizioni nel SSN, territoriali ed ospedaliere, che documentano un notevole gap tra le regioni (nella tabella sono riportati i dati AIFA del 2023 che dimostrano un'ampia variabilità locale, confrontata con la media nazionale e per macro-aree geografiche).
- elevata frequenza di utilizzo della procedura, costi elevati, rischio elevato di complicanze (mortalità, morbosità) [..] procedure il cui uso è controverso, buone probabilità terapeutiche o diagnostiche e la qualità dell’evidenza scientifica disponibile.
L’obiettivo di fondo era la riduzione dell’eccessiva variabilità geografica di ricoveri o interventi chirurgici, “restringendo” la curva gaussiana, dopo aver indicato come riferimento per i decisori alcuni
- “scenari” o “indicazioni”, per classificare, in base a sintomi, storia clinica, risultati dei test diagnostici ,i pazienti che potrebbero essere candidati all’intervento in questione.
Nel modello RAND erano considerati “problemi di tipo clinico, mentre gli aspetti di carattere economico e/o di organizzazione sanitaria vanno esclusi”.
Bibliografia: https://curprim.blogspot.com/2024/07/appropriatezza-diagnostica-e.html
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